La scienza costituzionale e l’esperienza storica insegnano che quando si affronta una riforma costituzionale, non di dettaglio ma di vasto impianto, occorre tener conto almeno di due premesse. La prima premessa è che le Costituzioni sono congegni delicati che vanno trattati con molta cura dal momento che servono a tenere unito il tessuto sociale di un Paese per un lungo arco di tempo, impegnando non una, ma più generazioni. Per questo si dice che le Costituzioni, più che nella politica, affondano le loro radici nella storia delle società che sono chiamate a regolare.

La seconda premessa è che le Costituzioni, dal momento che sono destinate a definire, oltre che le basi della convivenza sociale, anche le regole fondamentali del gioco politico, per reggere la prova del tempo devono risultare condivise se non da tutti quanto meno dal numero più alto possibile dei giocatori in campo. Nel caso del referendum costituzionale d’autunno, i giocatori questa volta saranno i cittadini legittimati al voto. Si può, dunque, comprendere l’importanza della scelta che gli elettori italiani saranno presto chiamati a compiere: una scelta destinata a condizionare a lungo, nel bene e nel male, il futuro politico e istituzionale del nostro Paese.

Se così è, per fare una scelta che sia ragionevole e non troppo condizionata da suggestioni ideologiche coloro che in questa occasione si recheranno alle urne dovranno essere in grado di comprendere bene il senso di questa riforma, i suoi obbiettivi e i suoi strumenti, nonché di valutare se la stessa, una volta applicata, abbia la possibilità di funzionare e di produrre gli effetti positivi che si auspicano per il futuro del nostro impianto istituzionale.

Sugli obiettivi della riforma non mi sembra che possano sussistere dubbi. Vediamo che la riforma mira in primo luogo a rafforzare la stabilità e l’efficienza del governo, rettificando un difetto di origine del nostro impianto costituzionale (difetto, peraltro, storicamente ben giustificato), che la crisi dei partiti, nell’ultimo ventennio, ha concorso sensibilmente ad aggravare. Per conseguire questo obiettivo di fondo la riforma assume come punto di partenza la trasformazione del nostro bicameralismo «paritario» in un bicameralismo «differenziato», che viene posto in relazione con un nuovo assetto del nostro «Stato regionale» più orientato verso il centro e, comunque, sensibilmente diverso da quello attualmente tracciato nel titolo V della Costituzione.

Nel modello che la riforma traccia e che investe congiuntamente sia la forma di Stato che la forma di governo la Camera, unica titolare del voto di fiducia, diviene pertanto il perno dell’indirizzo politico nazionale mentre il Senato assume in parallelo la funzione di organo rappresentativo del sistema delle autonomie locali. 

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