Dunque alla fine incarico a Conte. È in questo modo che sta per partire il secondo esecutivo della XVII legislatura. Un governo che, in particolare in queste ultime ore, cerca di presentarsi all’insegna della discontinuità con uno dei peggiori dell’intera storia repubblicana sarà guidato dallo stesso premier. Non male come discontinuità. Un governo con una maggioranza guidata da un capo politico secondo il quale «il riconoscimento arrivato ieri dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump ci fa capire che siamo sulla strada giusta». Quella stessa maggioranza di governo che è stata responsabile di alcuni provvedimenti del tutto contrari – se non altro in linea di principio – alle linee guida di quello che si presta a svolgere la funzione di azionista di minoranza del nuovo esecutivo.

Ma su tutto ciò (e non è poco) che si poneva contro un accordo “giallo-rosso” ha vinto la logica del male minore. Contro le divisioni interne ai due schieramenti. Contro quella che sino a ieri poteva sembrava una pantomima inaccettabile (a cominciare dal ricorso alla piattaforma Rousseau). Ma soprattutto contro la logica. Eppure alla fine il governo sta per nascere, per quanto su equilibri assai precari, per giunta con la spada di Damocle renziana che pende sugli assetti parlamentari del Partito democratico, uscito per il momento senza danni irreparabili (a meno che tale non si voglia considerare l’uscita dell’ex ministro Calenda) grazie alla guida di un segretario che ha sorpreso molti.

In attesa di conoscere chi andrà a ricoprire i diversi incarichi ministeriali (certo su questo, almeno sulla carta, il margine di miglioramento è grande), non si può far altro che accontentarsi per ora della logica del meno peggio, salvo lagnarsi per l’ennesima volta di uno scenario politico che appare sempre più contraddittorio e indecifrabile (o, viceversa, prevedibilissimo e chiaro nella mente dei più assertivi sostenitori del bene contro il male). Volenti o nolenti, resta la speranza, che al momento non può essere molto di più, che di nuovo la politica italiana sappia sorprenderci, e per una volta in positivo. Finita la pantomima restano i programmi. E per questo è utile riprendere i punti programmatici avanzati nel corso della trattativa. Per guardare oltre le polemiche che hanno accompagnato la nascita in vitro di questo esecutivo, che molto deve alla fermezza del presidente Mattarella, senza la quale il limbo sarebbe durato se non tre mesi, come quelli che precedettero la nascita del governo che si sarebbe di lì a poco rivelato a traino leghista, certo diverse settimane.

Cinque sono stati i punti messi sul tavolo da parte del Partito democratico, dalla cui direzione Zingaretti è uscito, almeno in apparenza, con un sostegno più diretto e, forse, più franco. (Per quanto negli ultimi tempi le standing ovation in direzione non abbiano portato bene, come ha dimostrato la triste vicenda dei 101 franchi tiratori per l’elezione di Prodi presidente della Repubblica, approvata in precedenza all’unanimità in seno al partito.) Rivediamoli rapidamente.

1. L'impegno e l'appartenenza leale all'Ue per una Europa profondamente rinnovata. Non l’Europa di Visegrad ma un’Europa del lavoro, dei diritti e dei doveri, delle libertà, della solidarietà e della sostenibilità ambientale e sociale, del rispetto della dignità umana in ogni sua espressione.

2. Il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa incarnata dai valori e dalle regole scolpite nella Carta Costituzionale, a partire dalla centralità del Parlamento.

3. Lo sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale.

4. Una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori fondata sui principi di solidarietà, legalità e sicurezza. Nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali e l’impegno prioritario per affermare un pieno e diverso protagonismo dell'Europa in questi temi.

5. Una svolta delle ricette economiche e sociali, in chiave redistributiva, che apra una stagione di investimenti. La legge di bilancio è il punto di partenza di ogni confronto.

Sono questioni centrali, che tuttavia dovranno trasformarsi in azione di governo per non restare solo enunciati di principio. Dunque in politiche su cui, almeno per qualche mese (a meno di non voler credere in un governo di legislatura), i due pezzi del nuovo governo non dovrebbero confliggere troppo. A guardare la storia degli ultimi quattordici mesi sembra difficile da credere, ma ci si può provare.

Per ognuno di questi punti abbiamo chiesto ad altrettanti soci e amici del Mulino di indicare possibili linee di sviluppo, in un ottica che, almeno nelle intenzioni, non fosse di breve periodo, ma guardasse avanti, in termini di sviluppo e di crescita, naturalmente non solo economica. Per la questione migratoria, per la sostenibilità dell’economia, per l’equilibrio dei conti, gli investimenti, il lavoro, l’Europa, i rapporti istituzionali e la centralità del Parlamento. Dall’elenco mancano temi non meno cruciali, a cominciare dal futuro della formazione (la scuola, l’università, la formazione professionale, il rilancio di un sistema formativo che pare sempre più disassato rispetto alle necessità di un Paese grande e complesso, pieno di potenzialità inespresse, come viene sempre ricordato). O tutto il comprato infrastrutturale, sul quale pessima prove (anche su questo) ha dato di sé lo scorso governo.

Il primo ministro sarò lo stesso. Le politiche, per convincere, dovranno sorprendere per discontinuità con le precedenti. Sarà da vedere se, all’insegna di una discontinuità non solo di facciata, oltre a quelle doti camaleontiche che lo hanno visto riemergere in extremis nei confronti del dominus del governo uscente, Conte dimostrerà anche capacità di guida.