Non è la prima volta (e quasi certamente non sarà l’ultima), che una riunione del Consiglio europeo viene considerata decisiva per le sorti dell’Unione. Ma è di gran lunga quella più avvolta da un clima di drammatica attesa. L’accordo politico raggiunto a 26 (fa eccezione la Gran Bretagna di Cameron) ha concordato – si legge nella dichiarazione dei capi di Stato e di governo della zona euro – un “nuovo patto di bilancio e un coordinamento notevolmente rafforzato delle politiche economiche nei settori di interesse comune”. Il “nuovo patto” si tradurrà in un ulteriore rafforzamento delle misure messe in atto nei mesi scorso nel quadro della cosiddetta “governance economica”. In concreto, gli Stati membri si impegneranno a inserire nelle loro Costituzioni l’obiettivo della parità dei bilanci (sono considerati tali quelli il cui disavanzo strutturale non superi lo 0,5% del Pil); nel contempo, verranno rafforzate le regole di sorveglianza economica e sui bilanci. Per assicurare liquidità, si accelererà la trasformazione del meccanismo temporaneo di assistenza finanziaria (Efsf) in Fondo permanente (il Meccanismo europeo di stabilità). Non sono state aumentate le risorse disponibili, ma le conclusioni lasciano aperta la possibilità che le risorse già decise per il Fondo permanente (500 miliardi di euro) – si aggiungano a quelle disponibili nel Fondo già in essere. Se il pilastro del rigore risulta più o meno definito, meno chiari sono gli impegni per giungere a una politica economica comune e a una più stretta integrazione fiscale.

L’insieme di queste decisioni verranno adottate attraverso un accordo di natura internazionale sottoscritto da 26 Stati, poiché i nove Paesi non appartenenti all’eurozona hanno deciso di partecipare a tale processo. Il Regno Unito, già in regime di opting out nell’ambito dell’Uem, conferma per bocca del suo Primo ministro la sua totale contrarietà. La firma del nuovo accordo è prevista entro il marzo nel 2012. Tutto deciso dunque? L’Ue è finalmente giunta a una soluzione della questione dei debiti sovrani? Angela Merkel spalleggiata da Nicolas Sarkotzy è riuscita a far prevalere la sua visione politica e il suo rigore? La storia della costruzione comunitaria ci insegna che accordi già virtualmente decisi – spesso su iniziativa franco-tedesca – possono conoscere evoluzioni impreviste e imprevedibili.

I dubbi non mancano. Giuliano Amato sulle pagine del “Sole 24 - Ore” ha messo in luce le debolezze dell’accordo. Nelle conclusioni del Consiglio europeo, non c’è traccia di più ampie responsabilità di intervento della Bce e di una sinergia operativa tra la stessa Bce e il Fondo salva-Stati. Su quest’ultimo punto qualcosa c’è, come sottolinea lo stesso Amato e come ricorda Stefano Micossi, poiché si riconosce alla Bce il ruolo di agente del Fondo salva-Stati per le sue operazioni di mercato. Potrebbe voler dire, ma non c’è certezza, che la Bce offrirà sostegno di liquidità agli interventi del Fondo.

Non c’è nessuna traccia della proposta di eurobond avanzata nella bozza del presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e indicata dal presidente della Commissione Barroso con un libro verde ad hoc, mal digerito dalla Merkel.

L’accordo poggia in sostanza quasi tutto sui meccanismi di stabilizzazione (inasprendoli), già in atto e frutto di ben 21 riunioni del Consiglio europeo. Tante sono infatti le volte in cui, dal settembre 2008, i capi di Stato e di governo si sono incontrati, da quando Lehman Brothers chiese di avvalersi del Capitolo 11 del Codice Statunitense della Bancarotta. Ogni vertice è stato presentato dai media come fosse “l’ultima spiaggia”. In questo clima è stata introdotta la governance dell’euro, sottoposta a interventi massicci che hanno di fatto cambiato la costituzione economica dell’Europa con un progressivo trasferimento all’Ue di parti importanti di sovranità nazionali. È stato introdotto il semestre europeo che impone agli Stati membri di coordinare le loro decisioni di bilancio; sono state introdotte misure di prevenzione per gli squilibri di bilancio e per gli squilibri macroeconomici “in misura simmetrica” e cioè sia nel caso di deficit che di surplus; è stata rafforzata la trasparenza degli istituti di statistica e sono state introdotte sanzioni per gli Stati asimmetrici. Ma tutto ciò non è bastato a risolvere la crisi. Ultima spiaggia dopo ultima spiaggia, la maggioranza dei capi di Stato e di governo è rimasta a galla lasciando affondare almeno sei governi, quattro di sinistra (Portogallo, Spagna, Grecia e Slovenia) e due di destra (Italia e Irlanda).

Nell’ultimo Consiglio europeo, Angela Merkel ha finalmente convinto 26 governi a inasprire le regole di diritto secondario sulla disciplina fiscale all’interno di un accordo di natura intergovernativa. Questa prospettiva, da taluni considerata in realtà la prima opzione, è stata possibile proprio grazie al “no” di Cameron. La totale (e prevedibile) indisponibilità di Cameron ha infatti aperto la porta a un accordo internazionale con modalità giuridiche incerte che, come sottolinea Stefano Micossi, rischiano di aprire nuove fratture nella struttura istituzionale dell’Unione. Giuliano Amato sostiene di “diffidare degli accordi intergovernativi al posto delle procedure comunitarie”. Tuttavia, Amato si arrenderebbe a una conclusione non nuova, se l’accordo sottoscritto non diversamente da quello di Shengen si trasformasse in diritto europeo. “L’Europa avanza scegliendo quasi sempre la strada sbagliata dopo aver accuratamente scartato quelle migliori […] Ma, sia pure di traverso, avanza”.

Come sottolinea il Gruppo Spinelli – un gruppo di pressione nato recentemente all’interno del Parlamento europeo capeggiato dal capo gruppo dei liberali europei Verhofstadt e da Cohn Bendit – una riforma più ampia del Trattato di Lisbona potrebbe consentire, oltre al rafforzamento delle misure urgenti per far uscire l’Eurozona dalla crisi (ruolo della Bce e dei meccanismi transitorio e definitivo salva-Stati, introduzione dei project bonds, rafforzamento del bilancio europeo dal punto di vista delle entrate e delle spese, ruolo della Commissione e del Parlamento europeo) anche l’introduzione di misure più incisive per la crescita, il vero punto di debolezza dell’Unione oggi.

Si può infatti rafforzare il governo dell’euro utilizzando l’articolo 136 del Trattato di Lisbona e la sua clausola di flessibilità, attribuire al cosiddetto Fondo Salva Stati il ruolo di un "tesoro europeo" in embrione con la licenza di acquistare obbligazioni sul mercato primario, introdurre la tassa sulle tassazioni finanziarie, completare il mercato interno anche nella sua dimensione sociale come proponeva il rapporto Monti e dotare l’Ue di un bilancio federale, per garantire beni comuni a dimensione europea, basato su vere risorse proprie (il gruppo cita, oltre alla tassa sulle transazioni finanziarie, anche la carbon tax e l’imposta sulle società) e completato da project bonds per finanziarie investimenti nella modernizzazione e nella trasformazione ecologica dell’economia europea. La via maestra resta quella di una “convenzione” (lo prevede il trattato all’art. 48), che stabilisca fin dall’inizio modalità di ratifica a geometria variabile per evitare lo scoglio dell’unanimità.

In attesa dei futuri sviluppi dell’accordo politico concluso la scorsa settimana, resta l’urgenza di concepire uno sviluppo di un’unione economica e di bilancio nel quadro di strutture politiche di legittimazione. E dunque la necessità di non procrastinare oltre l’istituzione di un’autentica unione politica dell’Europa. Qualsiasi altro progetto alternativo condurrebbe le strutture politiche dell’Unione attuale verso derive ambigue e, soprattutto, pericolose.