Thomas e Sonia vivono a Londra da oltre un decennio. Hanno due figli, Zoe e Leo. Zoe ha dodici anni ed è nata a Londra, in un ospedale a pochi passi dalla loro casa. Fin dalla nascita ha due passaporti, quello francese e quello britannico. Leo, invece, ha sei anni ed è nato a Parigi, perché Sonia, nonostante fossero residenti a Londra, volendo essere sicura che in caso di complicazioni durante il parto ci fosse qualcuno ad aiutarla, aveva deciso di tornare temporaneamente in Francia, per essere vicina alla sua famiglia d’origine. A causa del suo luogo di nascita, Leo ha diritto soltanto al passaporto francese, almeno per ora. La loro è una famiglia etnicamente mista: Thomas è di origine camerunense e francese d’adozione. Sonia è nata e cresciuta in Francia. Entrambi concordano che Londra è un posto migliore dove far crescere i loro bambini, perché nonostante la Brexit rimane una città aperta alle differenze etnico-culturali e accogliente. Questa è un’opinione ampiamente condivisa tra i cittadini europei residenti a Londra. E sono tanti.

Nell’Europa post Brexit, Londra si trova a occupare un ruolo paradossale, di capitale di fatto del sogno europeo, con una popolazione di cittadini dell’Ue ben oltre il milione, incluse molte famiglie con bambini nati in città. Si tratta, secondo un’analisi condotta da un team dell’Università di Birmingham nell’ambito del progetto Eu families and Eurochildren in Brexiting Britain, della più ampia conglomerazione di immigrati dell’Ue in Europa. Ma quello che rende questa popolazione unica non è solo il numero. L’analisi mostra come, a differenza di altre città europee, a Londra siano presenti numerose comunità di ogni Stato membro, distribuite in ogni settore del mercato del lavoro, dai direttori di museo agli aristocratici, dai baristi ai docenti universitari (tanti da superare il corpo docente di molte università italiane), dagli attivisti Lgbt+ ai pensionati.

La libertà di movimento dei cittadini europei all’interno dell’Ue è uno dei pilastri dell'ambizioso progetto europeo, di cui Londra è stata un faro, attirando generazioni di giovani, studenti e lavoratori da ogni angolo del continente

La libertà di movimento dei cittadini europei all’interno dell’Unione è uno dei pilastri del progetto europeo. Al di là del motivo economico, questo principio funge da catalizzatore per la formazione nella popolazione dell’Unione di un’identità paneuropea e postnazionale, una casa comune in continua costruzione. Attraverso la mobilità, incluse iniziative come l’ormai quarantennale programma Erasmus, l’Ue promuove la formazione di reti di relazione e collaborazione, di ricerca e lavoro. Inevitabilmente queste reti di contatto e scambio stimolano anche la formazione di relazioni amicali e sentimentali, la nascita di famiglie transnazionali e di nuove generazioni che incarnano, anche in senso biopolitico, l’idea di una cittadinanza veramente europea e postnazionale. Londra, in particolare quella di Tony Blair e di Cool Britannia, è stata un faro di questo ambizioso progetto, attirando, anche grazie al suo profilo di città globale e aperta al mondo, generazioni di giovani, studenti e lavoratori da ogni angolo del continente. La seconda città, ma a grande distanza, per numero di cittadini non nativi dell’Unione europea è Bruxelles, con circa un quarto della popolazione residente a Londra, Roma solo un decimo.

Nonostante la Brexit, la diaspora europea a Londra continuerà a crescere, anche se c’è da aspettarsi una riduzione dei nuovi arrivi. Secondi i dati dell’Office for National Statistics (Ons), a Londra le nascite da madri nate nell’Ue rappresentano oltre il 18% del totale di quelle del 2018, un dato di gran lunga superiore al dato nazionale per Inghilterra e Galles. In alcuni quartieri della capitale, come Westminster, Brent e Newham, la differenza è ancora più marcata. A livello nazionale quattro Paesi europei – Polonia, Romania, Germania e Lituania (quest’ultima sorprende, se si considera che il Paese conta meno di tre milioni di abitanti) – figurano tra le prime dieci nazionalità di origine delle madri.

Nel nostro studio abbiamo esaminato qualitativamente l’impatto della Brexit sulle famiglie europee nel Regno Unito e le strategie messe in campo per mitigarle. In totale abbiamo intervistato quasi duecento famiglie, un terzo delle quali residente a Londra, una proporzione che riflette la distribuzione territoriale della popolazione europea. Molti degli intervistati hanno espresso un senso di frustrazione per l’assenza della loro voce nel dibattito sulla Brexit, quando la questione dell’immigrazione europea e la criminalizzazione degli immigrati erano presenze costanti nei media.

Ma il problema non era solo la voce, ma anche l’immagine che i media hanno costruito degli europei. Un’immagine polarizzata e politicizzata, con i giornali a favore della Brexit, vicini ai conservatori e al partito indipendentista di Nigel Farage, interessati quasi esclusivamente a storie di crimine e abuso dello Stato sociale, con protagonisti cittadini dell’Europa orientale (soprattutto rumeni, bulgari e polacchi), mentre i giornali liberali e pro Remain come «The Guardian» raccontavano, invece, storie di abusi e discriminazione contro i cittadini europei, soprattutto dei Paesi dell’Europa occidentale, a cui per esempio, per un errore burocratico, viene rifiutata la carta di soggiorno o inviata una notifica di espulsione. Sollecitati da quanto emergeva dalle interviste in relazione alla questione della rappresentazione, abbiamo lavorato con due fotografi professionisti e un gruppo di quindici famiglie a un progetto audiovisivo chiamato In the Shadow of Brexit, una raccolta di ritratti di famiglia con immagini e voci. Un tentativo di catturare, per quanto possibile, la diversità della popolazione europea in una metropoli come Londra e di declinare la famiglia europea nelle sue varie configurazioni, nei suoi tanti volti, nazionalità, lingue, colori, orientamenti sessuali e di genere, esplorando la relazione tra queste famiglie e la città.

A Londra i cittadini europei hanno trovato una consolazione nel fatto che la città ha votato in grande maggioranza per rimanere nell’Ue e il sindaco Sadiq Khan ha incessantemente promosso un messaggio a favore degli immigrati

A Londra, come avevamo osservato anche in Scozia, i cittadini europei hanno trovato una consolazione nel fatto che, nonostante la vittoria del voto pro Brexit a livello nazionale, la città ha votato in grande maggioranza per rimanere nell’Ue e il sindaco Sadiq Khan ha incessantemente promosso un messaggio a favore dell’Ue e degli immigrati. Alcuni degli intervistati parlano di Londra come di un mondo a parte, invocando, un po’ seriamente e un po’ per scherzo, l’indipendenza della città dal resto dell’Inghilterra. Per altri, come ci spiega Gianluca, ricercatore italiano sposato con un’architetta russa, neanche Londra, che è una bolla, può mitigare l’impatto della Brexit, che è tanto forte al punto che la farà scoppiare.

Nonostante condividano i timori sugli effetti distruttivi della Brexit e l’incertezza sul futuro alla deriva dal continente, tra le famiglie miste, per nazionalità o colore, come quella di Sonia e Thomas, c’è anche la consapevolezza che la vita altrove in Europa non sarebbe certo più facile per sè e per i propri figli. «A Londra tutti sono diversi, la diversità è un dato di fatto, che quasi tutti accettano, e qui ognuno può essere chi vuole», spiega Marie, franco-beninese sposata con Paddy, un musicista inglese. Per Mihai, un attivista rom romeno, non ci sono dubbi, «se sei un rom come me, Londra, anche dopo la Brexit, è ancora il posto più sicuro dove vivere in Europa». Questi brevi estratti riflettono quanto ci hanno detto molti degli intervistati, cioè che la superdiversità (un concetto proposto dall’antropologo Steve Vertovec) di Londra offre ai cittadini europei di qualsiasi provenienza, inclinazione e preferenza uno spazio più accogliente e sicuro dove sperimentare e costruire relazioni e progetti di vita che altrove possono incontrare forme di opposizione e resistenza. Londra, in un certo senso, è un laboratorio unico e fragile, dove sperimentare una forma di cittadinanza europea e postnazionale aperta alla diversità e all’alterità, una forma di «europolitanismo» orfano del progetto europeo, alla deriva a causa della Brexit.