Bentornata in Messico. Una delle cose più difficili nel tornare a casa è stato rassegnarsi a vivere in una democrazia finta. Arrivando in Messico dopo anni trascorsi all’estero la differenza mi è balzata dolorosamente agli occhi: i servizi di base, una strada ben asfaltata o un trasporto pubblico dignitoso sono lussi che, a quanto pare, il 30% di tasse non possono pagare; così come un adeguato accesso alle cure mediche e la possibilità di costruirsi un curriculum scolastico decente sono mete irraggiungibili, almeno con questo governo.

Nel mio Paese il disincanto è ormai diventato uno stile di vita. È il sentimento che rappresenta meglio ciò che non siamo capaci di cambiare in noi stessi e nel Paese. È l’impotenza con cui ci confrontiamo ogni giorno, è la rabbia accumulata nei confronti dell’immane sistema corruttivo. È l’insieme delle continue falsità che il governo alimenta tramite radio e televisione, ventiquattr’ore al giorno, senza sosta, con una propaganda che, ad esempio, annuncia l’ultimo cambio di nome al solito programma di riduzione della povertà, dopo settant’anni di fallimenti.

Siamo disincanto e mangiamo disincanto: uno dei Paesi con la più ricca varietà gastronomica sceglie di ingozzarsi di donitas Bimbo accompagnate da litri di Coca Cola. È la politica del mandar giù i sentimenti. Bimbo è un esempio perfetto, una compagnia che si dichiara al 100% messicana e che con orgoglio fa delle proprie origini una strategia pubblicitaria. Dimentica però di pagare le tasse e tiene in ostaggio il mercato acquisendo tutti i concorrenti, mentre lo invade di prodotti di pessima qualità. Un modus operandi, questo, che è purtroppo lo standard delle compagnie in Messico, dove gli interessi dei grandi monopoli e della politica coincidono.

Dietro lo stereotipo del messicano pigro, grasso e apatico c’è una popolazione repressa, che per anni ha subito soprusi. In realtà, basta dare uno sguardo alla storia delle proteste di questo Paese per rendersi conto di quanto la popolazione messicana sia politicamente attiva. Ma ogni protesta si scontra con le diffamazioni del governo, che ha gioco facile grazie al controllo monopolistico delle maggiori compagnie di telecomunicazione. Un formula che ha ormai cent’anni, che ha contribuito a diffondere anche nel resto del mondo l’immagine fantastica e illusoria del progresso messicano. Per più di quarant’anni il Messico è stata una stella emergente che appariva di tanto in tanto nelle più importanti riviste politiche ed economiche. Anche recentemente, «Time» ha informato il mondo che sarà Peña Nieto a «Salvare il Messico». Un dittatore di transizione, ignorante, violento e corrotto, la cui autorità di presidente del Messico è più che discutibile, almeno quanto lo sono le politiche per cui viene encomiato e proclamato universalmente salvatore del mio Paese. Allo stesso modo, i «miracoli messicani» di cui si parla non sono altro che una serie di farse orchestrate minuziosamente in cui l’oligarchia vende, compra e baratta il territorio e le risorse secondo i propri interessi.

Nel frattempo, con altrettanta cura, provvede a promulgare norme che legittimino ogni passaggio. La polizia e l’esercito, al servizio del governo, fanno tornare i conti. Di solito, un buon indicatore del fallimento di una democrazia è il rapporto tra cittadinanza e forze armate. In Messico, la polizia è diventata la figlia disgraziata degli affari e della politica: protegge i ricchi e annienta l’opposizione, addebita i propri conti alle nostre tasse e aggiunge le mance alle multe. L’esercito non è altro che il consueto soldato senza volto, che combatte una causa persa contro se stesso, condotto, come sempre, dalla disinformazione e da interessi colossali. E, naturalmente, bisogna sempre ricordarsi di sorridere, perché Washington sta a guardare.

Ma la speranza è l’ultima a morire. Anche in Messico i social media stanno dimostrando la loro importanza. In Messico c’è una rivoluzione, o ce ne sono diverse: anche grazie al supporto della rete, civili armati si prendono la responsabilità di ripulire le strade dai gruppi armati e violenti, oltre a denunciare il governo per tutti gli anni di complicità e assenza. Come gli Zapatisti di un tempo, i gruppi di vigilantes usano i social media per comunicare e raccogliere il supporto di milioni di utenti che ogni giorno si connettono per informarsi, sfogarsi e commentare la situazione del Paese.

L’informazione e il dibattito su ciò che accade nei vari stati del Messico raggiunge così la capitale senza dover prima passare per Los Pinos e Televisa. Un gruppo di artisti e intellettuali ha già chiesto che si formi un’assemblea popolare per revocare le riforme incostituzionali che Peña Nieto e i suoi hanno appena fatto passare in Parlamento. Se non troveranno ostacoli, infatti, queste riforme apriranno agli investimenti stranieri l’industria petrolifera messicana, la quinta al mondo per grandezza. Il governo avrebbe così un potere smisurato su una risorsa nazionale che, fin dai tempi dell’espropriazione, è stata salvaguardata dalla Costituzione contro azioni di questo tipo. Anche le nostre spiagge sono in pericolo, la proposta di riforma dell’articolo 27 permetterebbe infatti ai capitali stranieri di comprare le terre costiere. Di fatto, questa serie di riforme privatizzerebbe il patrimonio che finora ha fatto parte dell’immaginario di tutti i messicani.

Viaggiando da Contadero a Santa Fe in una giornata di sole, poco alla volta scorgo la città. Circondata da vulcani e montagne, con il verde che sfuma e una fauna testarda che si rifiuta di andarsene, è di una bellezza straordinaria. Di colpo la rabbia mi assale. Secondo Forbes, il numero di milionari nei Mint (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) supererebbe quello dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Persino nel distretto finanziario di Santa Fe, il prezzo da pagare è palese: nessuna responsabilità governativa o d’impresa significa che la città, come il Paese, deve sopravvivere con quel poco che si salva dall’avidità.

Ma, come si sa, la speranza è l’ultima a morire.