In nome della musica. Quest’anno il Festspielhaus di Bayreuth, che compie il suo centotrentacinquesimo genetliaco, ha voluto celebrarsi con un vero e proprio colpo di teatro: far suonare la musica di Richard Wagner, maestro della Gesamtkunstwerk - l’opera d’arte totale, che riunisce in sé componenti visive, musicali, poetiche, drammaturgiche e liriche - nonché grande sacerdote dell’antisemitismo, a un gruppo di ebrei, i membri della Israel Chamber Orchestra, diretti da Roberto Paternostro. Anch’egli ebreo, di padre italiano e madre austriaca. E così, in contemporanea alla messa in scena dei Maestri cantori di Norimberga, l’orchestra israeliana ha eseguito brani di Tzvi Avni, di Gustav Mahler, di Felix Mendelssohn-Bartholdy chiudendo però con l’Idillio del Sigfrido. Benché, data la delicatezza della scelta, a nessuno degli orchestrali fosse stato richiesto di partecipare obbligatoriamente all’esibizione, solo uno dei trentasei componenti aveva alla fine declinato. La decisione di offrire al pubblico una partitura così impegnativa per musicisti ebrei, sia dal punto di vista delle implicazioni morali che emotive, era peraltro stata discussa per più di un anno all’interno dell’orchestra. Le polemiche, tuttavia, in Israele come nella diaspora ebraica, non sono mancate dinanzi alla «rottura di un tabù» che per certuni è parso essere anche e soprattutto uno «stupro culturale» (così il Centro Wiesenthal).

Tempio della musica wagneriana, piazzaforte della musica operistica e sinfonica europea, tradizionale convivio di melomani e di amanti delle note romantiche e appassionate, da sempre il festival di Bayreuth ha dovuto condividere una duplice fama, quella felice di sagra della cultura alta con quella, ben più triste, di cenacolo reazionario. Una fama accuratamente alimentata a suo tempo dai nazisti stessi e da alcuni membri della famiglia Wagner. Questi ultimi, negli anni del Terzo Reich, erano ben lieti di accogliere festosamente lo «zio Wolf», così come confidenzialmente si faceva chiamare Adolf Hitler, nelle sue numerose comparsate in quello che considerava uno dei più puri scrigni dell’arianesimo. Non è quindi un caso se le note di Wagner, insieme a quelle più tristemente gaudenti dei walzer di Strauss, facessero da colonna sonora nelle giornate di abiezione e morte dei campi di concentramento. In Israele, e più in generale in tutte le comunità diasporiche, è sempre esistito una sorta di interdetto silenzioso ma condiviso: Wagner doveva restare fuori dalla porta poiché la sua musica, pur nella sua rilevanza estetica, non poteva essere disgiunta dal wagnerismo, l’ideologia razzista e pseudoclassicista promanante dal compositore e che a cavallo tra il XIX  e il XX secolo impregnò di sé i circoli più radicali della destra tedesca ed europea. A formulare questo nesso fu, tra gli altri, Thomas Mann, che denunciava «la mistura di primitivismo e futurismo» del musicista tedesco, responsabile di inneggiare agli istinti belluini degli ascoltatori sulla scorta di una mitologia tanto bislacca quanto menzognera.

Il boicottaggio ebraico delle sue musiche datava peraltro già al 1938, quando l’allora Palestine Orchestra si rifiutò di suonarne le partiture. E così fu ancora nei decenni successivi. Nel 1981, infatti, Zubin Mehta, allora direttore della prestigiosa Israel Philharmonic Orchestra, dopo poche note del preludio di Tristano e Isotta fu bruscamente interrotto dal pubblico. Nel 2001 toccò una sorte non troppo diversa a Daniel Baremboim, che a conclusione di un concerto a Gerusalemme informò il pubblico che avrebbe fatto suonare alcuni brani wagneriani. Molti uscirono dalla sala, altri gli urlarono variopinti e sgradevoli epiteti ma una parte di quelli che rimasero applaudirono ripetutamente l’esecuzione. Dopo di che in Israele Wagner continua ad essere ascoltato, ma privatamente. In un paese dove la musica classica ha un’ampia diffusione tra la popolazione riuscirebbe difficile, se non impossibile, escludere del tutto colui che ne rimane un comprovato protagonista. Il punto è che le esecuzioni aperte non sono gradite, riducendosi a pochi concerti, ristretti a un ristretto pubblico, presente su espresso invito. Una censura che, probabilmente, è destinata a rimanere finché l’ultimo sopravvissuto della Shoah sarà in vita.