Ci sono metafore che resistono splendidamente all’usura del tempo: “la polpa e l’osso” è una di queste. Partorita dalla feconda mente di Manlio Rossi-Doria, tracciava i confini dell’agricoltura meridionale di un’Italia in piena modernizzazione produttivistica poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, cogliendo in modo fulmineo e tranchant l’essenza delle condizioni naturali e socio-economiche di due mondie, nello stesso tempo, individuando le rispettive possibilità di sviluppo e le possibili linee di azione; le politiche, insomma.

“Polpa” era territorio costiero denso di risorse irrigue che, per natura di terreni, di clima e di altre condizioni ambientali, si mostrava “altamente suscettibile allo sviluppo”. L’osso era la “montagna e le zone latifondistiche (…) in avverse condizioni ambientali”; uno spazio naturale e sociale dove, in passato, più grave è stata la miseria contadina e dove poco è cambiato nel tempo: “Vecchi e donne coltivano ancora i campi, che nessuno vuol vendere, ma di fatto questi poveri villaggi – anche se provvisti di qualcosa che un tempo mancava (la luce, la scuola, la televisione) – ogni giorno di più diventano campi di concentramento per vecchi, donne e bambini e, quando gli uomini validi avranno trovato una qualche sistemazione e non torneranno più nei paesi, diventeranno sacche di miseria, vergogna di un paese civile”.

È alla Sardegna di questi ultimi 60 anni, alla ridefinizione della distribuzione spaziale della sua popolazione, che sembra attanagliarsi perfettamente la metafora rossi-doriana della “polpa e l’osso”: un continuo e profondo spopolamento del suo osso, le zone interne rurali, a vantaggio della polpa, le turistiche terre costiere e le principali città, Cagliari, Sassari e Olbia: dal 1951 la percentuale dei comuni in calo demografico è stata di circa il 60% (228 comuni su 377) e di questi oltre un terzo (35,5%) ha registrato un decremento superiore al 40%. La percentuale di abitanti che risiedono nei comuni costieri è passata dal 49% del 1951 al 62,3% del 2010 e, specularmente, l’incidenza percentuale di quelli che vivono nei comuni delle aree interne è scesa dal 38,2% del 1951 al 25,5% del 2010. Il baricentro della popolazione sarda ha continuato la sua inesorabile discesa “a sud”, addensando nei primi 37 comuni più abitati dell’Isola oltre il 70% della popolazione e immiserendo gli ultimi 37 meno abitati del solo 2% complessivo.

A partire dalle tendenze rilevate, e a “politiche invariate” (senza interventi, azioni capaci di invertire questa emorragia), le proiezioni statistiche raccontano quanto sia grave il processo di desertificazione demografica delle zone interne dell’isola: entro 60 anni si ipotizza la letterale “scomparsa” di 33 paesi, quasi il 9% di quelli attualmente esistenti. Piccoli e piccolissimi paesi di montagna e di collina su cui i principali indicatori socio-demografici presentano costantemente il segno negativo, con meno di 3000 abitanti e in una posizione notevolmente distante dalle concentrazioni urbane.

Il forte declino della natalità, il prolungamento della vita media, il forte invecchiamento della popolazione, le scarse prospettive di un mercato locale del lavoro asfittico – insieme ai profondi cambiamenti degli schemi culturali e degli stili di vita che accompagnano la cosiddetta modernizzazione - hanno dunque provocato un processo d’ingrossamento squilibrato della polpa a svantaggio dell’osso, innestando un circolo vizioso laddove in mancanza di popolazione e di domanda specifica i servizi essenziali (asili, scuole, trasporti, welfare locale), si impoveriscono e non sono più economicamente sostenibili; il territorio diventa viepiù meno attraente per gli esterni e vincolante per gli interni, rendendo, per dirla alla Hirschman, più allettante l’exit piuttosto che la loyalty.  Mentre la voice dei residenti, a leggere le ricerche disponibili, è molto flebile, sommessa o assente.

Finora in Sardegna non è stata intrapresa alcuna specifica politica contro lo spopolamento dell’osso e tutte le buone pratiche evidenziate in altre regioni di paesi europei dove si verificano tendenze similari (Francia, Svezia, Germania dell’Est, Galles, Finlandia, Repubblica Ceca), raccontano misure che cercano di evitare nuovi flussi emigratori, favorire l’arrivo di popolazione dall’esterno, strategie a sostegno delle nascite e dell’ispessimento delle possibilità produttive dei sistemi locali del lavoro. Misure, azioni e interventi che hanno necessità di risorse finanziarie rilevanti ma, soprattutto, di un’attenzione specifica, una strategia e una politica nazionale di sostegno e sviluppo per le aree svantaggiate del paese.

Quelle regioni che compongono il nostro Mezzogiorno, un territorio e un tema completamente scomparso dall’agenda politica di questo governo, senza uno specifico ministero per la Coesione territoriale, con 3,5 miliardi di euro recentemente tagliati dal Piano di azione-coesione con la legge di stabilità. Un Mezzogiorno “spolpato”, abusando ancora della tragica metafora di Rossi-Doria.