Ora è pace. “Oggi una nuova era ha inizio. Il periodo della lotta armata sta finendo, si apre la porta alla politica democratica”: con queste parole il leader del popolo curdo Abdullah Öcalan, detto Apo, detenuto nella prigione di İmralı dal 1999, aveva inaugurato il Newroz 2013. Un inizio di anno speciale, quindi, una svolta politica importante per i rapporti tra Ankara e il popolo curdo.

Così, a pochi giorni dal messaggio, mentre il governo istituiva una commissione di esponenti della società civile, costituita allo scopo di coinvolgere direttamente il popolo curdo nelle trattative, il movimento curdo dava inizio alle operazioni di ritiro dei guerriglieri dalle montagne. Sebbene l'evento sia stato salutato come l'inizio della fine, tuttavia c'è chi non esclude che questa fase possa rappresentare anche la fine di un nuovo inizio. Non mancano, infatti, alcune perplessità sulle posizioni del governo Erdoğan, il quale non ha ancora esposto chiaramente le proprie intenzioni sull'eventuale processo di pace. Precisamente, da parte curda, rimangono alcune richieste imprescindibili, prime fra tutte il diritto a manifestare la propria identità, incluso quello di parlare liberamente la propria lingua, e la liberazione dei prigionieri politici. E infatti lo stesso comunicato lanciato da Öcalan per il Newroz 2013 era un messaggio che non intendeva dichiarare la resa, piuttosto annunciava il tentativo di percorrere un'altra strada per raggiungere ciò per cui si è sempre combattuto: il popolo curdo non intende certo rinunciare ai sacrifici di trent'anni di lotta, né tanto meno  considerare i propri ragazzi sulle montagne come un esercito di terroristi.

Tuttavia, Ankara non sembra volersi ancora esprimere seriamente sul destino dei prigionieri politici. In aggiunta, la campagna di arresti contro i curdi che ha preceduto il Newroz 2013 spinge a pensare che non ci sia una sincera volontà istituzionale di condurre le operazioni di dialogo. In poche parole, la repressione non sembra finita, piuttosto sembra svolgersi in una forma meno palese rispetto alle plateali cariche di fine anni Novanta contro i curdi. In questo modo Erdoğan sembra voler combinare le diverse esigenze del Paese: da una parte ha bisogno di trasmettere tranquillità a una popolazione stanca dei continui lutti di questa guerra; dall'altra non può sottovalutare né il bisogno di pragmatismo in uno scenario mediorientale sempre più confuso, né le pressioni degli irriducibili nazionalisti turchi che cercano a tutti i costi di far naufragare le trattative con le minoranze, inclusa quella curda.

Intanto, nei giorni scorsi, la commissione istituita nell'ambito delle trattative ha incontrato le famiglie curde. Tante le testimonianze raccolte, perché tanti sono stati i massacri, impressi ancora oggi nella memoria delle comunità. Eppure, il popolo curdo non ha mai perso il coraggio e, nonostante i soprusi subiti, la sua identità è sempre sopravvissuta con forza. Certamente la lotta e la fiducia nel loro leader hanno contribuito a non smarrire, in nessuna occasione, la speranza di cambiare. Me lo spiega bene un anziano signore: "Da oggi le cose dovranno essere ripartite in parti uguali". Prende quattro semini di zucca, mi porge la metà dei semini e continua: "Così anche i diritti, dovranno essere uguali da Istanbul a Diyarbakır". Ha il volto segnato, ma è rilassato. "Ora è pace", mi dice, "lo ha detto anche lui, Apo, e così sarà".