Che ne è della patria del diritto? Che fine hanno fatto i giuristi d’antan? Queste domande sorgono spontanee, dopo tre notiziole di questi giorni. La prima è del 23 febbraio: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il caso Abu Omar. Sai la novità, dirà qualcuno. Qui, però, la cosa suona un po’ più grave delle altre volte. Che i nostri servizi segreti abbiano collaborato alla extraordinary rendition verso l’Egitto di un imam sospetto di terrorismo non stupisce nessuno: suona però malissimo, dopo il caso Regeni. Ma soprattutto, dalle ottantuno pagine della sentenza, dal valore più simbolico che pratico, escono altrettanto male, se possibile, le massime autorità dello Stato e dunque l’intera immagine della Repubblica.

La seconda notizia è del giorno successivo: il Tribunale di Messina ha accolto il ricorso contro l’Italicum, la legge elettorale approvata la scorsa primavera e in vigore da luglio 2016. Qui la notizia sta nella celerità. Per il Porcellum, la cui incostituzionalità era molto più ovvia, ci sono voluti quattro anni e tre gradi di giudizio, prima che la Cassazione rinviasse gli atti alla Corte costituzionale. Qui ci ha pensato, in due mesi, uno dei diciotto tribunali di primo grado interpellati, accogliendo sei dei tredici motivi. Così, la Corte dovrà pronunciarsi in tempi rapidi, come ha promesso il nuovo presidente Paolo Grossi, sul cuore della legge: ballottaggio, premio di maggioranza, e anche la limitazione alle sole elezioni della Camera, come se il Senato fosse già stato riformato (lo sarà in primavera).

La terza notizia risale al 12 gennaio, ma resterà d’attualità per tutto l’anno, almeno sino allo svolgimento del referendum-fine-di-mondo sulle riforme costituzionali, previsto per l’autunno. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato che si ritirerà dalla politica se gli elettori respingeranno le riforme costituzionali: o, a questo punto, proprio lui, personalizzando. Su questo si voterà, alla fine: non sulla Costituzione, che forse meriterebbe maggior rispetto, e meno che mai sul merito della riforma, incomprensibile ai più. Nell’attesa, la discussione si preannuncia imbarazzante: mesi e mesi passati a fingere di parlare di democrazia e Costituzione, mostrando a luce meridiana l’incultura di un’intera classe politica.

È questo il vero problema sul quale, novella oca del Campidoglio, mi sento di lanciare l’allarme. Il regime fascista si rivolgeva ancora a un ceto di giuristi che riusciva a condizionarne le scelte: producendo codici, come l’esecrato ma vigente Codice Rocco, tecnicamente ineccepibili e complessivamente più liberali di tanta legislazione repubblicana. Oggi, invece, i giuristi si dividono fra quanti firmano ricorsi, come il sottoscritto, e quanti lavorano come consiglieri del principe, ma preoccupandosi solo di assecondarne le scelte. Sulla qualità della legislazione che ne esce, complicando la nostra vita quotidiana, è esemplare l’art. 70 della Costituzione. Confrontate la formulazione del 1947, di tre righe, con la nuova, di quaranta, e poi ditemi voi se non c’è ragione di allarmarsi.