La diplomazia africana e il rebus libico. Il conflitto armato in Libia costituisce un banco di prova per l’Unione Africana (Ua), che in questi ultimi giorni ha intrapreso un tentativo di mediazione, il cui esito rimane molto incerto, tra gli insorti e il governo del colonnello Gheddafi. Rimasta inizialmente defilata davanti allo scoppio della ribellione e alle azioni militari internazionali contro il regime libico, nonostante Sudafrica e Nigeria, due tra gli Stati più influenti del continente, avessero votato a favore della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con il passare dei giorni e il profilarsi di una impasse militare l’Ua ha avviato un tentativo di mediazione tra gli insorti e il governo libico, volto al raggiungimento di un cessate il fuoco e all’avvio di «riforme politiche per eliminare le cause del conflitto».

Il 10 aprile i membri della missione diplomatica dell’Ua hanno incontrato Gheddafi a Tripoli, e il giorno dopo si sono recati a Bengasi per discutere le loro proposte con i leader degli insorti. Per quanto la mediazione africana, portata avanti dai governi di Sudafrica, Mauritania, Mali, Congo-Brazzaville e Uganda, non abbia spazi molto ampi di manovra, stretta come è tra l’intransigenza del regime libico, le rivendicazioni degli insorti, la strategia politico-militare ormai intrapresa dalla Nato e le divisioni interne alla stessa Ua, essa rappresenta uno dei pochi canali reali che la comunità internazionale ha in questo momento a sua disposizione per porre fine al conflitto in Libia. Accolti – almeno apparentemente  – in maniera favorevole a Tripoli, i membri del gruppo di mediazione africano hanno incontrato maggiori difficoltà a Bengasi, dove i leader degli insorti hanno rigettato la road map elaborata dall’Ua per porre fine al conflitto.

La mediazione africana è stata infatti accusata da più parti, e non solo dagli insorti, di puntare alla salvezza di Gheddafi e del suo regime, e non alla promozione di un sistema pienamente democratico in Libia. Non è la prima volta che questo genere di accuse viene rivolto all’Ua. Il modello di risoluzione dei conflitti che quest’ultima – creata nel 2002 sulle ceneri dell’Organizzazione dell’unità africana – ha perseguito (con gradi differenti di successo) nel corso dell’ultimo decennio, in scenari diversi come quelli di Zimbabwe e Kenya, Sudan e Costa d’Avorio, ha sempre avuto come priorità quella di fermare gli scontri armati e negoziare una qualche forma di power-sharing tra i belligeranti, così da ripristinare la stabilità politica e, successivamente, tentare di introdurre o ripristinare la democrazia. Bisogna però domandarsi se le deficienze “democratiche” di questo modello di risoluzione dei conflitti siano da attribuire esclusivamente all’Ua (e alla presenza di leader autoritari in seno alle sue istituzioni) o se invece la comunità internazionale non sia almeno in parte responsabile delle difficoltà che il radicamento di istituzioni democratiche e forme di sviluppo inclusivo ancora oggi incontrano in Africa, in generale, e nei Paesi che emergono da conflitti armati, in particolare.

Pochi ricordano che l’ultimo vertice tra i leader di Unione europea e Africa si è svolto proprio a Tripoli, alla fine dello scorso mese di novembre, e che (ancora una volta) la dichiarazione finale del vertice ribadiva l’impegno collettivo a promuovere la democrazia e… a condannare i colpi di Stato. È chiaro che il successo della mediazione dell’Ua in Libia dipenderà dalla disponibilità di tutti gli attori nazionali e internazionali a rinunciare all’uso delle armi. Ma è altrettanto chiaro che, qualunque sarà la soluzione militare del conflitto, l’intera comunità internazionale, e non solo l’Ua, sarà chiamata a svolgere un ruolo attivo nel sostenere lo sviluppo di forme democratiche di partecipazione politica in Libia.