A volte capita che ci siano situazioni del reale per cui le categorie prodotte per descriverle e definirle nel loro preminente contenuto appaiono assolutamente calzanti, senza ombra alcuna di ambiguità o pericolosa sfumatura. Una di queste è “servitù”. E il territorio italiano dove, dal dopoguerra, questa dimensione del limitare i diritti altrui all’uso di ampi spazi territoriali assume una connotazione viva, accesa e spropositata, è la Sardegna.

Perché è proprio dagli anni Cinquanta – con accordi segreti con il governo italiano, quali “Mutua Sicurezza” e “Bilateral Infrastructure Agreement” – che la Nato ha regalato all’Isola un tragico destino, quello già individuato da Mussolini quando ne parlava come di una “portaerei naturale del Mediterraneo”: diventare la più importante e imponente piattaforma addestrativa degli Alleati.

E quel dono fu così generoso che ancora oggi, nell’economia degli spazi di servitù militare assegnate alle diverse regioni, la Sardegna sostiene il 64% del peso complessivo nazionale. Oltre 30 mila ettari sono impegnati dal demanio militare; più di 13 mila ettari, di proprietà privata e pubblica, sono utilizzati per le esercitazioni militari; dei tre poligoni di tiro, due (a Capo Teulada e al Salto di Quirra) sono i più grandi d’Europa; vaste porzioni di mare antistanti coste di meraviglia inenarrabile (oltre 450 kmq solo a Teulada) sono – più o meno permanentemente – inibite alla navigazione, alla pesca e al turismo; 80 km di litorale non sono accessibili ad alcuno, né tanto meno ai residenti per poter sfruttare in senso economico il proprio territorio.

Nei poligoni si spara: molto, di tutto, spesso a pagamento, giacché sono ospitate sperimentazioni di armamenti e dimostrazioni delle aziende produttrici ai potenziali clienti. Una buona fetta delle attività che si svolge è, infatti, di natura privata. Che poi si sperimenti anche qualche elemento notevolmente dannoso per la salute umana, degli animali e per l’equilibrio ambientale non è solo la multiforme presenza degli antimilitaristi, indipendentisti, ambientalisti e di pezzi consistenti della società civile a evidenziarlo, lanciando continui allarmi.

L’indagine commissionata nel 2004 dalla giunta regionale del governatore Soru (“Rapporto sullo stato di salute delle popolazioni residenti in aree interessate da poli industriali, minerari e militari”) e quella commissionata dalla Difesa a una esperta della materia come Antonietta Gatti rilevano la presenza, nelle zone dove insistono i poligoni militari, di sostanze inquinanti che possono incidere in modo rilevante sull’aumento di tumori, linfomi e mielomi.

Nel gennaio del 2011, il pm Domenico Fiordalisi apre un’inchiesta sui ripetuti casi di gravi patologie tumorali tra i militari, i lavoratori civili della base, i pastori che possedevano allevamenti nell’area del poligono e gli abitanti dei centri vicini. Oltre a mettere in luce svariati casi di bestiame nato con mostruose malformazioni, l’esito più importante dell’indagine fu la scoperta che il Poligono è stato, per anni, utilizzato come una vera e propria discarica di materiale militare, contenente, con tutta probabilità, uranio impoverito. Queste furono ragioni sostanziali per incriminare sei ex comandanti del Poligono dal 2004 al 2010, con l’accusa di omissione aggravata di cautele contro infortuni e disastri.

Un anno dopo, a maggio 2012, la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito approva all’unanimità la Relazione redatta dal senatore Gian Piero Scanu, dove si evidenzia un dato certo di responsabilità: i poligoni militari hanno inquinato e contaminato immense aree della Sardegna, al loro interno sono state usate armi e sostanze assolutamente dannose e pericolose per la salute di chi vive nelle vicinanze. Nonostante ciò, la Relazione non si spinge a chiedere la chiusura dei poligoni, ma cerca di impegnare il governo in un’opera di bonifica radicale dei siti, ridimensionamento delle servitù militari nell’Isola, anche mediante la progressiva riduzione dei Poligoni di Capo Frasca e di Teulada  e la riconversione del Poligono Interforze del Salto di Quirra in un Centro polivalente tecnologico-scientifico. Poi, come spesso capita, non se ne fece più niente, e ancora oggi le dichiarazioni al tavolo di lavoro con il ministero della Difesa dell’attuale presidente della Giunta regionale, Francesco Pigliaru, ricalcano quelle richieste.

Sono dunque presenti, da lunghi anni, delle serie e corpose motivazioni che possono spiegare il malessere di una buona fetta della società civile sarda nei confronti di questa ingombrante presenza militare. Disagio che, a volte, si trasforma in una colorata e chiassosa hirschmanniana “voice”, magari organizzata, ma pur sempre di tono civile. Come quella del 3 novembre scorso, quando “La Rete no Basi né Qui né Altrove” ha indetto una manifestazione contro la Trident Juncture 2015 davanti al Poligono di Teulada.

La Trident Juncture 2015 è la più grande esercitazione Nato dalla Guerra fredda: 36 mila militari, 30 Paesi, 140 aerei e 60 navi, agiti nel nostro spazio nazionale per «dimostrare che la Nato è in grado di difendersi da qualsiasi minaccia», spiega Alexander Vershbow, vicesegretario generale della Nato. Che poi questa colossale esercitazione nel Mediterraneo, salvo «mostrare i muscoli a Mosca», sia «inutile, costosa e inefficace ad affrontare scenari realistici, quanto più simili a quelli in cui ci si può trovare a combattere e non […] scenari ammuffiti, da Guerra fredda», non viene assolutamente preso in considerazione dai vertici Nato. Infatti, sono le considerazioni del generale Leonardo Tricarico, non un pericoloso sovversivo, ma il presidente dell’Icsa, il più autorevole think tank strategico italiano, e uomo che ha avuto la regia della campagna Nato sul Kosovo nel 1999.

La questura è stata regolarmente preavvisata della manifestazione anti-Trident il 29 ottobre (nei tre giorni precedenti l’iniziativa, come prevede la legge), ma 
il questore ha emanato un comunicato nel quale affermava che la manifestazione non sarebbe stata autorizzata in mancanza di non meglio precisati “canoni di sicurezza”, e ha emesso una serie di provvedimenti nei confronti di alcuni antimilitaristi per impedire loro di avvicinarsi alla zona. Poi, ha anche avuto modo di dichiarare all’Ansa che «dovevamo dare un segnale importante dopo la richiesta di manifestazione», dimentico che queste manifestazioni possono essere vietate solo “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Comprovati, appunto, non teoricamente ipotizzati e neanche enunciati…

In una prova di forza dove l’unico assente è stato il buon senso da parte delle autorità costituite, la manifestazione si è tenuta, condita di continui posti di blocco per l’identificazione, manganellate e 28 pacifisti denunciati dai carabinieri. Per un attimo, però, dopo l’ingresso di alcuni antimilitaristi nell’area del Poligono, i cannoni hanno smesso di vomitare fuoco e la più grande esercitazione Nato dal dopoguerra si è fermata. Tranne riprendere l’indomani, con tutti i suoi protagonisti impermeabili alla ragionevolezza.