«Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle Br». Esattamente quarant’anni fa, non pochi italiani si fecero sorprendere da questa sconvolgente notizia che occupava l’intera prima pagina della «Stampa», del «Paese Sera» e del «Giorno». Caratteri cubitali, foto inequivocabili. C’è chi ci credette per qualche minuto e chi anche per diverse ore, prima di scoprire che quelle prime pagine intraviste sull’autobus, al bar o in edicola erano false. Si trattava di uno scherzo organizzato, con la complicità dello stesso Tognazzi, dalla rivista satirica «Il Male», fondata meno di due anni prima e che in quei mesi stava avendo un successo straordinario, vendendo fino a centoquarantamila copie. Pubblicati nelle pagine centrali, i falsi potevano essere facilmente esposti dai lettori complici come giornali veri. Era uno scherzo quasi sacrilego nell’Italia della primavera del 1979. Nonostante una delle canzoni più trasmesse in quei mesi ripetesse ossessivamente che «the freak c’est chic», l’aria era quella cupa della fine degli anni Settanta. La varietà dei movimenti che aveva animato la società italiana era ormai soffocata da una logica della contrapposizione violenta. L’eroina faceva intanto oltre cento morti quell’anno; quasi il doppio nel 1980.

Una falsa notizia messa in circolazione da persone che ne conoscevano la falsità e che contavano sulla sua riproduzione virale: il falso arresto di Tognazzi è la prima spettacolare fake news della storia repubblicana? La logica del falso del Male è esattamente opposta a quella delle fake news. Trova ispirazione nelle riflessioni e nelle pratiche diffuse dalla metà degli anni Settanta, quando in parte della sinistra alternativa i riferimenti al situazionismo si erano arricchiti delle teorie semiotiche francesi e nordamericane. In quel contesto, l’idea di «inventare false notizie per produrre fatti veri» si fondava su un chiaro presupposto: usare il linguaggio del potere enfatizzandone le contraddizioni mirava a disarticolare l’ideologia dominante. La notizia falsa non doveva essere creduta che pochi istanti o poche ore. Doveva scioccare, stranire, per poi obbligare a interrogarsi sui motivi che avevano permesso a una notizia assurda di passare per vera.

La notizia falsa non doveva essere creduta che pochi istanti, ma doveva scioccare e obbligare a interrogarsi sui motivi che avevano permesso a una notizia assurda di passare per vera

Logica opposta a quella delle fake news in cui la notizia falsa è fabbricata per inserirsi nel flusso di informazioni confermando l’ordine dato del discorso. Costituite da vergognosi comportamenti surrettiziamente attribuiti ai nemici o a gruppi sociali da stigmatizzare, le fake news dei nostri giorni sono eredi delle false notizie che lo storico Marc Bloch, immediatamente dopo la Grande Guerra, constatava essere divenute oggetto di studio da parte di criminologi e psicologi sociali. Sulla scia di quegli studi, Bloch invitava non semplicemente a rigettare le false notizie, ma a interrogarsi sullo sviluppo di «queste singolari efflorescenze dell’immaginazione collettiva» (Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921) che giocavano e giocano un ruolo fondamentale nell’orientamento dell’opinione pubblica, ma anche, per esempio, nel sobillare comportamenti violentemente aggressivi in esercito e polizia. 

Le prime pagine contraffatte dal «Male» aspiravano a rompere un ordine del discorso, non a confermarlo. Mettevano alla berlina le tesi cospirazioniste e il sistema mediatico che le rilanciava acriticamente. Gli stranianti falsi sull’arresto di Tognazzi furono pubblicati quattro settimane dopo gli arresti del 7 aprile 1979 e l’inizio di una lunga vicenda investigativa e giudiziaria, sulle cui ombre non pochi (sebbene forse troppo pochi) cercarono di richiamare l’attenzione. Amnesty International, ad esempio, espresse vive preoccupazioni per la gestione di quella inchiesta, denunciando l’uso arbitrario e protratto della reclusione preventiva così come la pericolosa vaghezza dell’articolo del Codice penale che definiva l’associazione sovversiva e su cui si fondavano numerose accuse. Qualche anno più tardi, in Francia, una commissione di magistrati, avvocati e poliziotti, valutando diverse domande di estradizione verso l’Italia, in numerosi casi per accuse nel quadro dell’inchiesta «7 aprile», suggerì alla presidenza della Repubblica di adottare quella che avrebbe preso il nome di «dottrina Mitterrand».

Fra i maggiori problemi messi in luce vi era la difficoltà di isolare negli atti giudiziari italiani la responsabilità individuale in circostanziati atti criminosi, come imposto dallo stato di diritto. Gli arresti del 7 aprile erano stati ordinati dal giudice Calogero, vicino al Pci, che riteneva di aver individuato un livello organizzativo occulto e centralizzato in grado non solo di coordinare tutte le azioni della cosiddetta «area dell’Autonomia», ma anche quelle delle Brigate rosse. I vertici di questa centrale unica del terrorismo rosso erano costituiti da ex-dirigenti di Potere operaio, fra cui Toni Negri, ordinario di Dottrina dello Stato all’Università di Padova, ma anche autore di testi con espliciti riferimenti alla «urgenza di una forza armata del proletariato che attacchi e distrugga il comando capitalistico». La figura di Negri, dagli occhi piccoli e dal riso nervoso, docente universitario divenuto punto di riferimento per un’area politica che ricorreva ad azioni violente e talvolta armate, si adattava perfettamente al ruolo di regista sanguinario di un piano generale cui ricondurre tutto e tutti.

Un secondo obiettivo delle false copertine del "Male" era senz’altro quello di attirare l’attenzione sul sistema mediatico e sulla logica dello "sbatti il mostro in prima pagina"

Se il primo obiettivo delle false copertine del «Male» era proprio la denuncia delle tesi cospiratorie per cui problemi diversi e complessi si riducevano al disegno di un burattinaio occulto, un secondo era senz’altro quello di attirare l’attenzione sul sistema mediatico e sulla logica dello «sbatti il mostro in prima pagina», per riprendere il titolo del celebre film del 1972, di Marco Bellocchio, interpretato da Gian Maria Volonté.

La difficoltà della stampa e televisione italiana nel costituirsi come potere separato rispettoso dei diritti degli accusati si era imposta da subito, da quel dicembre 1969 in cui la strage di Piazza Fontana aveva sancito la fine del lungo Sessantotto e l’inizio di un nuovo clima politico e sociale. In Rai ormai da oltre otto anni, Bruno Vespa aveva annunciato al Tg nazionale del 16 dicembre: «Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma […] La notizia, la conferma è arrivata un momento fa qui nella Questura di Roma». Neppure la recente laurea in giurisprudenza con una tesi sul diritto di cronaca bastava a ricordare uno dei principi dello Stato di diritto, da difendere ancor più nei momenti di crisi: la presunzione di innocenza.

L’atteggiamento quasi unanime della stampa non era cambiato nel 1979. Le foto di un Tognazzi sorpreso all’alba e ammanettato mettevano in scena anche i processi mediatici che stavano imperversando in quel tempo e che, purtroppo, continueranno a contraddistinguere il sistema mediatico italiano fino ad oggi.

Nonostante lo scarto di registro proposto dal «Male» col fine di invitare a riflettere su punti essenziali della democrazia italiana, l’operazione non sortì l’effetto voluto. A quarant’anni di distanza, in un contesto radicalmente cambiato, quel falso ci ricorda quanto sia oggi attuale il pericolo di un sistema mediatico incapace di far proprie le elementari regole a garanzia di sospetti ed accusati. E ancor più ci obbliga a riflettere sull’inquietante uso delle false notizie: se la barba sfatta di Tognazzi scortato dai carabinieri giocava a mettere in scena l’assurdo, il rilancio sistematico di false notizie, anche da parte di persone con cariche istituzionali, mina la distinzione fra vero e falso, fra comprovato e compromettente.