Il disegno di legge Gelmini sull’università in questo momento è sospeso. Forse passerà, forse no. Penso che sia una brutta legge, ispirata a un disegno punitivo nei confronti dell’università pubblica. Favorisce le università private e specialmente quelle telematiche, quelle che insegnano “a distanza”, senza professori o quasi: a me ha straordinariamente colpito che il CEPU, in questo disegno, venga equiparato a un’università. Se passerà, questa legge genererà un caos organizzativo strepitoso. Ma mettere le organizzazioni nel caos è un modo di attaccarle, e ho l’impressione che il Ministero lo sappia bene. Del resto, se di una riforma l’università ha bisogno, è di una riforma del suo Ministero (organi, funzioni, funzionari e consulenti, consulenti che attualmente provengono in massima parte delle università private).

Passi o meno questa legge, le maggiori difficoltà per l’università pubblica derivano comunque dai tagli dei fondi, che sono già avvenuti (e a me pare che l’assenso di alcuni rettori alla legge sia stato ottenuto soprattutto con la promessa che, approvandola, i tagli sarebbero stati un pochino ridotti). Le finanze pubbliche sono in difficoltà ovunque in Europa; ma la percentuale di spesa per istruzione e ricerca in Italia è da tempo fra le più basse: decidere di tagliare ulteriormente in questo settore piuttosto che in altri è una scelta politica, non tecnica.

A meno di drastici aumenti delle tasse richieste agli studenti, dobbiamo e dovremo ancora di più nel futuro garantire servizi senza risorse finanziarie adeguate. La scarsità di risorse genera conflitti crescenti per la loro spartizione. Le cosiddette “baronie”, cioè i gruppi di professori più abili a far traffici accademici e meno interessati a far scienza, sono ben attrezzate a riguardo: temo si apra così un periodo in cui chi intende premiare il merito sarà travolto dai gruppi di interesse organizzati. Perché i gruppi clientelari sanno organizzarsi: non sanno fare altro. A essere in difficoltà saranno quelli che preferiscono insegnare e far ricerca, e che tengono a criteri meritocratici.

Le parole del ministro sull’importanza della valutazione meritocratica del resto sono mera propaganda: i curricula e gli elenchi di pubblicazioni dei docenti sono on line da tempo; un comitato di valutazione per le università esiste sulla carta da anni e il Ministero non lo ha mai messo in funzione; università come quella della Calabria, dove insegno, raccolgono da dieci anni questionari di valutazione della didattica da parte degli studenti, ma da quest’anno non potremo più farlo perché il Ministero ha tagliato i fondi necessari.

Quello di sconfiggere le consorterie clientelari tuttavia è davvero un problema. La presenza di clientele è spesso usata come argomento per distruggere la credibilità dell’università. Ma non è specifico dell’università: è un problema italiano. Questa osservazione non lo minimizza, ma lo mette nella sua giusta luce. Si dimentica del resto che l’università italiana è per lo più un’università molto buona; i nostri migliori laureati - notano in molti - trovano lavoro all’estero perché qui non hanno sbocchi: è vero, ma se all’estero il lavoro lo trovano è perché qui sono stati preparati bene, o no? Se hanno problemi all’estero, è perché la gente ride quando si nomina l’Italia di Berlusconi; ma sul lavoro sono rispettati, valorizzati, assunti. Li abbiamo preparati noi; altri godono delle loro capacità.

Di che cosa ha bisogno dunque l’università pubblica italiana? Innanzitutto di finanziamenti: non solo per assumere i giovani quando i vecchi vanno in pensione (le normative attuali hanno bloccato il ricambio), anche per biblioteche, attrezzature, laboratori, borse di studio. In secondo luogo, di regolamenti chiari: che non cambino ogni sei mesi, come avviene da dieci anni a questa parte, e in cui sia definito con precisione ciò che ogni ateneo può e deve decidere autonomamente e ciò che spetta al Ministero coordinare. In terzo luogo, abbiamo bisogno di sconfiggere le reti clientelari che si sono formate al nostro interno: non è un compito facile perché individualmente comporta prese di posizione scomode, discussioni non facili, esposizioni a ripicche e ricatti da parte di chi è esperto a farne; nessun marchingegno legale è sufficiente: è una questione di cultura, di attenzione, di controllo reciproco (qui gli studenti e i giovani precari sono una risorsa vitale: spero che continuino a premere in questa direzione). Infine, abbiamo bisogno di discutere dell’università: delle sue funzioni e del suo futuro.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante. I discorsi che nei media si sono affastellati negli ultimi due anni erano in gran parte volti a legittimare lo smantellamento dell’università pubblica. Abbiamo bisogno di altro. Di riflessioni su cosa vogliamo che sia l’università. Non è cosa da risolvere in due righe, ma mi azzardo a qualche frase in proposito.

Credo che l’università pubblica serva a fare ricerca libera, ispirata a criteri scientifici, e i cui risultati siano accessibili a tutti. Che serva a formare ampie élite di persone colte, responsabili e capaci di critica, includendo in queste élite i più capaci a prescindere dalla loro provenienza sociale. Che serva a preparare i giovani al mondo del lavoro in modo efficace, ma senza inseguire le richieste di un’impresa o dell’altra, poiché il mercato del lavoro cambia incessantemente e la buona preparazione è quella che mette in grado di continuare a imparare. Che serva infine a vagliare, a conservare e a trasmettere il patrimonio intellettuale di cui disponiamo, utilizzandolo per immaginare responsabilmente il futuro.

L’università pubblica è una risorsa, è un capitale. Di tutto abbiamo bisogno fuorché di sperperarlo.