Che i lettori dell’«Economist» siano tutti, improvvisamente, diventati dei nostalgici di una qualche forma di economia pianificata? Che siano afflitti da un senso di rimpianto per i famigerati Piani quinquennali? Crediamo proprio di no; e speriamo che non vi sia chi giudichi il risultato del recentissimo dibattito sulla politica industriale promosso dalla rivista con gli occhiali del tempo che fu. No, non vi è alcuna nostalgia nell’animo del 72% dei lettori che sabato 17 luglio, alla fine di un avvincente confronto/scontro fra due opposte tesi, hanno sconfitto proprio quella proposta dall’«Economist», che suonava così: «This house believes that industrial policy always fails».
Ma è proprio vero che, guardando a ciò che accade in giro per il mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, la politica industriale «fallisce sempre», è stata la contro argomentazione di Dani Rodrik? Proprio al professore di Harvard è toccato il difficilissimo compito dell’oppositore rispetto alla tesi portata avanti per conto del settimanale da un altro eminente professore della stessa università, Josh Lerner.
Straordinaria la ricchezza del dibattito, articolato – come un vero processo ‑ in tre fasi (dichiarazioni di apertura, confutazione delle prove, dichiarazioni finali), lungo il corso di un'intera settimana (12-17 luglio) e moderate da una giornalista dell’«Economist» (Tamzin Booth). Il tutto con l’aggiunta, assai utile, di decine e decine di interventi online da parte del pubblico dei lettori, oltre a due ospiti speciali.
Due osservazioni fondamentali: una di metodo, l’altra di sostanza.
La prima ha a che fare col profilo dei due contendenti chiamati dal settimanale ad animare il dibattito: due fuoriclasse, per dirla in breve. Ognuno con una propria storia, che è emersa con forza in tutte le fasi del dibattito. Josh Lerner insegna Investment Banking ed è l’autore di un libro giustamente celebrato, uscito lo scorso anno, Boulevard of Broken Dreams. Il titolo riprende quello di una nota canzone dei Green Day e il libro è un’analisi accurata, in chiave comparata, del «perché – citiamo dal sottotitolo – hanno fallito gli sforzi pubblici per aiutare l’imprenditorialità e il Venture capital - e che cosa fare al riguardo».
Non desta dunque meraviglia che a questo autore sia stata affidata la mozione dell’«Economist».
Dani Rodrik, dal canto suo, insegna “International Political Economy” ed è l’autore dei due seminal paper che nel decennio appena trascorso hanno riaperto, nella letteratura economica internazionale, la pagina della politica industriale; il riferimento va ai saggi: Industrial Policy for the Twenty-First Century (2004), Normalizing Industrial Policy (2007). La normalizzazione – è la tesi di fondo – consiste nel considerare questa politica pubblica al pari delle altre. I governi si occupano di istruzione, sanità e tasse, affrontando in ognuno di questi campi interessi speciali di gruppi di pressione e lobby? Sì, è l’ovvia risposta alla domanda retorica, ma questo non li può esimere dall’intervenire. Anzi, tutti - governi e studiosi – dibattono sul come offrire questi servizi pubblici nel miglior modo possibile a tutti i cittadini; lo stesso – argomenta Rodrik – dobbiamo fare con la politica industriale, senza farci spaventare dai problemi, che pur vi sono, quali la «cattura del regolatore» e la messa a punto dei corretti incentivi per l’implementazione e la verifica degli schemi di aiuto per le imprese.
Descrivendo il profilo dei due docenti di Harvard siamo passati da una prima annotazione di metodo a una seconda di sostanza. Che, dovendo riassumere al massimo, possiamo rintracciare in questa affermazione di Rodrik (prima fase del dibattito, 12 luglio): «L’essenza dello sviluppo economico è la trasformazione strutturale, l’ascesa cioè di nuove industrie al posto di quelle tradizionali. Ma questo non è un processo facile né automatico. Esso richiede un mix di forze di mercato e supporto governativo. Se il governo è troppo oppressivo, esso stronca l’imprenditorialità privata. Se esso è troppo distaccato, i mercati continuano a fare ciò che essi sanno fare al meglio, confinando il paese alla sua specializzazione in prodotti tradizionali e settori a bassa produttività».
Di fronte a sfide di questa portata, dalle nette reminiscenze schumpeteriane, non è tanto questione di domandarci «se» una politica industriale deve esserci, quanto piuttosto «come» organizzarla, gestirla e controllarne gli esiti. La pensano come Rodrik circa i tre quarti dei votanti (appunto il 72% contro 28%), come nel suo Winner announcement dichiara la moderatrice del dibattito.
Tuttavia, non la pensa così Lerner, o perlomeno non del tutto, nel senso che nel suo intervento finale fa capolino una timida e parziale apertura verso la tesi di Rodrik (prontamente sottolineata da quest’ultimo): con la politica industriale ci sono sia problemi concettuali non risolti che veri e propri «fallimenti nella sua implementazione», ma qualcosa può essere raggiunto. E controprova ne è il libro di Lerner - citato e consigliato dallo stesso Rodrik (l’onore delle armi?) – laddove illustra l’importanza storicamente avuta dal Dipartimento della Difesa americano per la crescita della Silicon Valley.
In verità, seguendo il dibattito da una prospettiva europea, sorge una  terza osservazione, che è quella che ho fatto io stesso intervenendo nel dibattito (il 13 luglio). Va a merito della Commissione europea, all’epoca presieduta da Romano Prodi e col commissario finlandese Erkki Liikanen responsabile del dossier, l’aver riportato in alto nell’agenda la politica industriale con la Comunicazione del dicembre 2002 (La Politica industriale in un’Europa allargata), cui altre ne seguirono nel 2003, 2004 e 2005 (quest’ultima a opera della Commissione Barroso). A tutto questo va poi aggiunto il recentissimo Rapporto Monti su una nuova strategia per il rilancio del Mercato unico, che è stato storicamente e può continuare a essere l’autentico motore dell’integrazione europea.
D’altronde, la nuova politica industriale non deve essere un (giusto) mix fra forze di mercato e intervento pubblico?
L’Italia ha molto da dire e da fare, per le sue tradizioni, sotto tutti questi profili. E' la quinta potenza industriale del mondo, la seconda dopo la Germania - come ci dice il Centro Studi Confindustria - se si guarda alla produzione industriale pro-capite. Fra i tanti lussi che il Paese non può più permettersi, vi è anche quello di perdere l’attimo fuggente. Se c’è un posto al mondo in cui valga la pena rimettersi a studiare e praticare seriamente la politica industriale – quella «normalizzata» per dirla con Rodrik – ebbene, quel posto assomiglia davvero tanto all’Italia.