Molte cose, naturalmente, si possono dire della straordinaria ondata di contestazioni che ha accompagnato l'inaugurazione della presidenza Trump e la sua prima raffica di ordini esecutivi. Qui vorrei concentrarmi in particolare su quelli che chiamo «i ritmi della resistenza». Vale a dire sulla possibilità che si crei un ritmo comune tale da creare un ciclo complessivo di protesta o, all’opposto, che ritmi eterogenei possano frammentare già all’origine l’opposizione a un’amministrazione che ha dato prova, se non di totale coerenza, di spietata rapidità.

Fin dagli anni Sessanta i teorici dei movimenti sociali hanno prestato grande attenzione al modo in cui argomenti conflittuali diversi si concatenano in quelli che hanno chiamato «cicli di protesta», espressione con la quale s’intende «una fase accentuata di conflitto che coinvolge l’intero sistema sociale, caratterizzata dalla rapida diffusione dell’azione collettiva dai settori più mobilitati a quelli meno mobilitati, da un rapido ritmo d’innovazione delle forme di protesta, dalla creazione di contesti nuovi o trasformati in cui si esplica l’azione collettiva, da una combinazione di forme di partecipazione organizzate e non, e da flussi intensificati d’informazione e interazione tra contestatori e autorità» (cito dal mio Power in Movement, Cambridge University Press, 2011, p. 199).

Non tutti i cicli, però, sono uguali. Alcuni muovono unitariamente verso specifici obiettivi, altri sono costituiti da una congerie di soggetti che colgono le opportunità create da coloro che hanno dato il via al ciclo. Alcuni si coagulano attorno a rivendicazioni e iniziative comuni, altri si disperdono lungo una serie di rivendicazioni di vario genere e attingono a un ampio repertorio di azioni. Soprattutto, però, vi sono cicli in cui i diversi attori coordinano i loro sforzi dando vita a coalizioni, e altri nei quali essi intraprendono percorsi diversi in relativo reciproco isolamento.

Il movimento contro la guerra del Vietnam si approssima al modello coeso di cui ho parlato. Benché l’opposizione alla guerra coinvolgesse all’epoca soggetti eterogenei in una molteplicità di contesti e si facesse ricorso a un vasto repertorio di iniziative, dalle rigide risoluzioni del Congresso alle mobilitazioni di massa alle irruzioni negli uffici del Fbi, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta l'America conobbe un ciclo relativamente organico di protesta mirata contro un’amministrazione che mentre conduceva una guerra feroce in Asia violava lo stato di diritto in patria. Allo stesso modo, vi fu una certa coerenza negli sforzi tesi a reprimere il movimento, dai tentativi di tenere a bada la folla al programma d’infiltrazione e controspionaggio condotto dal Fbi alla fatale infrazione del Watergate. A dispetto dell’azione repressiva che fu anzi un attestato della forza del movimento, fu quest’ultimo alla fine a prevalere, come dovette riconoscere un testimone autorevole come lo stesso Richard Nixon.

Molto meno unitari, e quindi meno vincenti, sono stati i movimenti di opposizione agli eccessi dell'amministrazione Bush tra l’11 settembre e l'elezione nel 2008 di Barack Obama. Come ho cercato di mostrare nel mio libro War, States, and Contention (Cornell University Press, 2015, cap. IX), gli sforzi tesi a frenare quegli eccessi, troppo eterogenei per poterli riassumere qui, possono essere raggruppati tuttavia attorno a tre modalità principali: il ricorso a vie legali contro l’illecita detenzione di individui rastrellati sul campo di battaglia a partire dal 2002; un movimento pacifista contro l'invasione dell'Iraq del 2003; infine, una serie di tentativi da parte di settori della società civile di denunciare e contestare la sorveglianza sempre più invadente del governo, che culminò nelle denunce di Wikileaks e di Snowden all'inizio del decennio seguente.

Tutti questi sforzi furono posti in essere da un’ampia gamma di soggetti che fecero ricorso a forme di resistenza assai variegate, attaccando aspetti diversi delle politiche dell'amministrazione attraverso iniziative portate avanti separatamente da avvocati, settori della società civile, informatori e pacifisti. E inoltre: tali sforzi durarono oltre un decennio, interrompendosi temporaneamente all’epoca della campagna elettorale di Barack Obama, senza concentrarsi su un bersaglio unico. Gli avvocati che crearono il «Guantanamo Bar» attorno al Centro per i diritti costituzionali si concentrarono immediatamente sulla detenzione illegale, mentre l'American Civil Liberties Union, più lenta a muoversi, si concentrò sulle richieste di accesso basate sui principi della trasparenza (Freedom of Information Act). Benché in entrambi questi movimenti che adirono vie legali fossero numerosi i simpatizzanti del movimento pacifista, nessuno dei due ebbe un ruolo attivo nel movimento contro la guerra in Iraq, che assunse temporaneamente enormi dimensioni ma perse gran parte della sua forza allorché il «partito della strada» si concentrò sulle campagne presidenziali del 2004 e del 2008, come hanno mostrato Michael Heaney e Fabio Rojas nel libro omonimo (Party in the Street, Cambridge University Press, 2015). Il movimento contro i programmi governativi di sorveglianza, dal canto suo, non si è formato che all’epoca della seconda amministrazione Obama e non ha mai dato vita a una coalizione unitaria. I diversi ritmi della contestazione all’amministrazione Bush hanno impedito l’emersione di un movimento simile a quello che si oppose alla guerra del Vietnam.

Dobbiamo forse attenderci un’analoga dispersione dell’attuale contestazione della presidenza Trump? In questo movimento nascente riscontriamo certamente una pluralità di motivazioni, origini e metodiche di opposizione. Gli avvocati che sono apparsi negli aeroporti di tutto il Paese dopo la proclamazione dell’ordine esecutivo anti-immigrati di Trump stavano soltanto facendo il loro lavoro, così come i loro omologhi predecessori del Guantanamo Bar. Le donne (e gli uomini) che hanno marciato nel Paese e in tutto il mondo il 21 gennaio sono ricorsi a uno strumento consolidato del repertorio delle opposizioni, la manifestazione pubblica. Le centinaia di gruppi civici che si rivolgono a municipi e assemblee legislative per protestare contro l’allineamento passivo dei loro rappresentanti all’agenda Trump stanno sfacciatamente copiando la tattica del Tea Party di cinque o sei anni fa; le città e le contee che si ergono a «santuari» ricorrono a una forma di resistenza che ha i suoi precedenti nel sostegno prestato negli anni Ottanta agli immigrati dall'America centrale; e i funzionari del Dipartimento di Stato che dissentono dalla politica estera di Trump non utilizzano che un mezzo convenzionale di espressione tutelato dalla legge. Quanto a Sally Yates, il vice procuratore generale che ha rifiutato l’attuazione di un ordine esecutivo immorale e forse incostituzionale, lo strumento da lei adottato rientra nel repertorio tradizionale delle forme di protesta: le dimissioni volontarie. E qua e là si manifestano episodi di violenze contro rappresentanti della «destra alternativa» sostenitori del nuovo regime, minacciando di provocare fratture nel movimento in via di formazione.

C’è il rischio dunque che questi diversi flussi di protesta si disperdano in piccoli rivoli. Tuttavia ci sono ragioni per sospettare che la crescente resistenza a Trump e ai suoi Gauleiter Pence e Bannon possa finire per somigliare più al movimento unitario contro la guerra nel Vietnam che alla frammentata opposizione alla presidenza Bush.

In primo luogo, il numero di partecipanti e le risorse che gravitano attorno al movimento sono enormi. Benché sia stato avviato con pochi soldi e i suoi fondatori abbiano commesso una serie di errori tattici, la marcia delle donne è stata probabilmente la più grande manifestazione nazionale nella storia americana. I gruppi della società civile d’inclinazione progressista hanno visto lievitare contributi e iscritti a partire dall’8 novembre. Persone che non si sarebbero mai sognate di partecipare a un movimento marciano, scrivono manifesti, telefonano ai loro rappresentanti, si mobilitano per dimostrazioni nella stagione più fredda dell'anno. E in tutto il Paese nuove città santuario vengono proclamate dai consigli comunali, oltre una decina solo dal 1o gennaio.

In secondo luogo, anche se le sue forme di azione sono molteplici, esso si concentra su un solo bersaglio, Donald Trump, che ha fatto un grande favore al movimento nascente decidendo di mettere le volpi nel pollaio del proprio gabinetto e selezionando come suoi più stretti collaboratori un gruppo terrificante di consiglieri. Trump sembra determinato a offendere ogni potenziale gruppo di opposizione al proprio governo e ha contribuito a fare dei media i suoi avversari etichettandoli egli stesso come tali. Di più: sta spingendo l’establishment normalmente quiescente del Partito democratico tra le braccia della sua base progressista, un risultato che neppure Bernie Sanders e Hillary Clinton sono riusciti a conseguire.

E soprattutto, spinto forse dal timore che, se non si muove in fretta, venga smascherata la propria combinazione di malevolenza e incompetenza, il presidente Trump sta aiutando il movimento nascente a risolvere il problema che ha afflitto i suoi predecessori all’epoca di Bush. Il ritmo frenetico della lesa maestà presidenziale condensa le sue offese in una cornice temporale talmente ristretta che i ritmi della resistenza stanno convergendo. O almeno così sembra in questi giorni.

 

 

[Traduzione di Giovanni Arganese. Questo post è uscito in inglese su «Dorf on law»]