Oggi il papa è a Lund. Dell’evento è stato detto molto e molto si dirà, ma l’impressione è che esso sia rimasto ancora troppo poco sviscerato nelle sue implicazioni, nelle sue conseguenze e perfino nelle sue «provocazioni». In pochi, ad esempio, hanno compreso la riconfigurazione dei rapporti tra cristiani implicato in questa visita e già all’opera dal suo annuncio. Il riferimento è principalmente ai nostalgici delle grida allo scisma, ben lungi dal considerare l’occasione come un riavvicinamento e alquanto sensibili nei confronti di esperienze che potrebbero rischiare commistioni. Ora, il punto è che non è questa l’intenzione di tale memoria comune. Grazie a quella «cultura dell’incontro» tanto cara al pontefice, è necessario oltrepassare un vocabolario anacronistico, proprio di contesti temporali differenti. Lo si può fare ricercando «la pienezza della cattolicità» e riconoscendo «quei figli» che alla Chiesa «sono certo uniti col battesimo, ma separati dalla sua piena comunione» (Unitatis Redintegratio, 4). Ecco perché questa visita è importante.

Benché l’ecclesiologia prettamente luterana si muova, a partire da una grazia strapiombante, entro i confini del binomio parola-fede, dell’interpretazione della Chiesa nei termini esclusivi di communio sanctorum e della dialettica esistente tra interiore ed esteriore, non è solo in forza di queste salde convinzioni che il dialogo ecumenico vive e progredisce. Si direbbe un paradosso: i punti teologici che hanno costruito l’impianto luterano distanziandosi da Roma possono costituire realmente gli sbocchi veri ed efficienti di una relazione interna al cristianesimo occidentale. In realtà, ciò che nella Storia per lungo tempo non si è colto - la possibilità di un consenso differenziato -, rappresenta ai nostri giorni il più efficiente tra i modus procedendi. L’esempio più evidente ci è dato dalla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione del 1999. In quel documento ci si esponeva con mano ferma ma pure con intenzione credente, e le posizioni di entrambe le fedi culminavano nella più importante e significativa presa di coscienza che il cuore della dottrina cristiana rimaneva intatto - alla maniera di episodi risalenti alla storia della Chiesa antica. Lo «stile» cristiano infatti non è dato dalla precisa strutturazione teologica dell’una o dell’altra Chiesa, ma dalla sua piena fedeltà al messaggio evangelico. In determinati ambiti, sorti specialmente dopo quel grande evento che fu il Concilio Vaticano II, la si chiamerebbe semplicemente «opzione preferenziale per i poveri», un’espressione che con il pontificato di Francesco ha rivisto luce e dignità. Comunque poi la si voglia chiamare, pensiamo qui alla «eredità» concreta che le scelte di Lutero allora contenevano in potenza e che oggi sembrano essere mature. Nelle sue proposte, il monaco tedesco non poteva che essere spinto dalla encomiabile volontà di sovvertimento di certi deprecabili comportamenti. Di lui ha scritto Yves Congar: «Egli è pure sicuramente guidato dalla volontà, in sé lodevole, di reagire contro una religione in cui la struttura ecclesiastica delle “cose” esteriori aveva preso uno sviluppo eccessivo a detrimento della stessa realtà religiosa, insita nel cuore dell’uomo» (Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, 2015, 293). Questo elemento portante va sottolineato e confermato per rafforzare quanto lo stesso papa Francesco ha confidato in una recente intervista ad Ulf Jonsson: «All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa» (Intervista a papa Francesco. In occasione del viaggio apostolico in Svezia). Quanto a cosa la riforma di Lutero possa comunicare ai cattolici non rimane che assecondare lo stesso Bergoglio, il quale ha ben espresso la ricchezza pastorale della stessa con l’uso di due termini chiave: «riforma» e «Scrittura». Non v’è dubbio infatti che tali realtà fungano da segni visibili di un cammino cristiano consapevole della precarietà in cui adesso ci barcameniamo e della pienezza che invece attendiamo. Disponendoci in regime di superamento della contingenza che pure all’ecclesiologia luterana va attribuita, e restituiti al profilo migliore del Vangelo potremmo curarci di più e meglio dell’intero apparato ecclesiastico. Questo non per l’ottenimento delle pur auspicabili «garanzie ecumeniche», ma più precisamente perché con tutta sensibilità si celebrino orizzonti nuovi raggiunti grazie all’impulso di un confronto sereno e tuttavia franco. L’obiettivo primo diventa così il «ripensamento positivo» della parzialità che un evento come quello di cinquecento anni fa non era comunque riuscito a dissipare.

Lo abbiamo già anticipato: l’unità non si riduce alla concordanza delle riflessioni teologiche. Se così non fosse saremmo costretti ad accontentarci di una comunione formale, ufficiale, attestata più dalla teoria che vissuta effettivamente nella quotidianità della fede, che in tal modo mutilerebbe le diversità. E invece: perché non concorrere all’arricchimento, anche e attraverso le diverse modalità di adesione al Vangelo? L’ecumenismo - come ha scritto Ghislain Lafont - «è nato dall’urgenza di una evangelizzazione comune» (Le pape et l’œcuménisme), e commetteremmo un torto nei confronti dell’intero tracciato fin qui coltivato se non gli riconoscessimo solidità. A questo devono mirare i confronti teologici. Essi sono certo importanti e vanno dunque incoraggiati purché le strade che di lì scaturiranno non pregiudichino il futuro e anzi lo inquadrino nelle medesime prospettive che il movimento ecumenico concretamente persegue. Le istanze di quest’ultimo offrono una cifratura nuova che ora, con la visita del papa in Svezia, si sintonizza su frequenze inedite, forse pure insperate, ma ben più che solamente profilate in un orizzonte irrealizzabile. Esse, qui ed ora, mostrano come i cristiani debbano sentirsi uniti a prescindere dalle specifiche posizioni dottrinarie e possano con ragione celebrare il loro unico Signore, la loro unica fede, il loro unico battesimo (cfr. Ef 4, 5).