L’accordo di pace tra il governo e le Farc. Il 24 agosto scorso i rappresentanti del governo colombiano e quelli delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejercito del Pueblo) hanno firmato a L’Avana l’accordo che ha messo definitivamente fine al conflitto che per circa 60 anni ha insanguinato il Paese. Il 23 giugno precedente era stata raggiunta l’intesa sul testo definitivo, poi approvato dal Congresso. Il 19 luglio la Corte costituzionale aveva approvato il referendum al quale il governo intende sottoporre l’accordo 30 giorni dopo la firma del testo definitivo, fissandone il quorum al 13% del censo elettorale, pari a circa 4,5 milioni di votanti. Tutte le forze politiche hanno accolto con soddisfazione la decisione della Corte, fatta eccezione per il Centro Democrático dell’ex presidente e attuale senatore Álvaro Uribe, contrario ai negoziati con le Farc. L’ha spuntata il presidente in carica, Juan Manuel Santos che, a fronte degli insuccessi di chi aveva pensato di poter pacificare la Colombia agendo unicamente sulla leva militare, ha puntato sulla soluzione politica e, pur non essendovi obbligato, sulla consultazione popolare. Una novità, quest’ultima, rispetto alle soluzioni negoziali cercate e a volte raggiunte nei decenni precedenti, che si erano rivelate effimere per la mancanza di un quadro internazionale favorevole e del sostegno della popolazione.

I prossimi anni diranno della qualità della pace raggiunta. Ma fin d’ora non si può non guardare con soddisfazione e cauta fiducia il risultato raggiunto, specie se si considerano la durata, i costi in termini umani ed economici, l’estensione territoriale e, a causa della pluralità dei soggetti coinvolti, la complessità del conflitto.

Iniziato nel 1958, fino al 2012 (anno d’inizio del negoziato ora conclusosi) esso ha mietuto circa 220.000 vittime, l’81% delle quali costituite dalla popolazione civile. Considerandole tutte, la macabra media è stata di 11 morti al giorno. Circa 10.000 sono state le vittime, tra mutilati e deceduti, provocate dalle mine antiuomo distribuite su una superficie stimata nel 45% del territorio nazionale. Ma vittime sono da considerarsi anche le migliaia di bambini e adolescenti arruolati coercitivamente dalle varie formazioni combattenti.

A causa della guerra la Colombia figura nelle statistiche come il Paese più violento del sub continente americano (massacri, sequestri, estorsioni, esodi forzati, stupri e vessazioni) e quello che più ha visto decurtato il proprio Pil dalle spese militari. Spese sulle quali è confluito anche il 60% delle risorse del «Piano Colombia», varato con il sostegno degli Stati Uniti e originariamente volto ad arrestare la produzione e il commercio della cocaina. La guerra ha investito il territorio di circa un terzo dei comuni e ha stravolto il panorama umano del Paese costringendo oltre 4,7 milioni di colombiani ad abbandonare i propri luoghi di residenza e almeno 8,3 milioni di ettari di territorio.

Una guerra complessa, si diceva, per la pluralità dei soggetti coinvolti: le formazioni guerrigliere di matrice comunista (Farc), guevarista (Eln), maoista (Epl), alle quali si aggiunse alla metà degli anni Settanta un gruppo di guerriglia urbana (M19); le formazioni paramilitari (favorite da una scellerata legge del 1968 che autorizzava l’autodifesa dei civili) emuli dei contras nicaraguensi, in combutta con i corpi dello Stato e foraggiate dal narcotraffico; infine, gli stessi corpi di polizia e dell’esercito, responsabili anch’essi di decine di massacri e di oltre 2.000 omicidi. Dagli anni Novanta i soggetti si sono ridotti a due, Farc e forze governative, per l’abbandono della lotta armata, prima delle altre formazioni guerrigliere e poi dei paramilitari.

Lungo e complesso è stato il cammino che ha portato all’accordo, peraltro percorso senza una cessazione previa delle ostilità, ma parallelamente a queste: costellato dunque da tregue temporanee, sospensioni dei negoziati, riprese delle ostilità da una parte e dei bombardamenti governativi sugli accampamenti dei guerriglieri dall’altra.

Colloqui preliminari ed esplorativi tra le due parti si erano svolti a Cuba tra il 23 febbraio e il 26 agosto 2012. Essi avevano condotto a un’intesa preliminare che ha reso possibile un processo negoziale del quale Cuba e la Norvegia sono stati i garanti, mentre il Cile e il Venezuela hanno funto da osservatori. Avviati formalmente a Oslo il 18 ottobre 2012, i negoziati sono poi proseguiti a Cuba seguendo l’agenda concordata che prevedeva cinque punti: a) le politiche di sviluppo agricolo; b) la partecipazione politica; c) la fine del conflitto; d) la soluzione del problema delle droghe illecite; e) la questione delle vittime, della verifica dell’applicazione degli accordi e del referendum. Com’è dato vedere, e come testimoniano le quasi 300 pagine del testo reso noto, non un accordo limitato alla cessazione delle operazioni militari e al reinserimento nella vita pubblica degli ex combattenti, ma un più che ambizioso progetto volto a incidere profondamente sull’economia e sul sistema politico colombiano. Nel primo caso con riforme strutturali in campo agricolo e l’implementazione di culture alternative alla coltivazione della coca (basti pensare che i 4.000 ettari coltivati a coca negli anni Ottanta sono diventati 160.000 all’inizio del nuovo millennio). Nel secondo promovendo l’integrazione delle ampie fasce di popolazione (divisa nelle varie etnie native) finora rimaste ai margini della vita pubblica, in un Paese segnato da drammatici squilibri sociali e territoriali, da uno dei più alti indici mondiali di diseguaglianza in materia di distribuzione della terra, nel quale le leve del potere sono state storicamente nelle mani di ristrette élite.

Il processo negoziale è stato accompagnato e alimentato da un risveglio della società civile colombiana – particolarmente forte nelle aree urbane e nel mondo universitario – che mettendo al centro dell’attenzione le vittime della guerra ha elaborato con il Grupo de Memoria Histórica un articolato discorso sulle cause, le dinamiche del conflitto e l’accertamento delle responsabilità per  le violazioni dei diritti umani. Per voltare pagina e avviare la ricostruzione del tessuto sociale, certo. Ma senza dimenticare.