La controversa nomination di Trump. «Sono la vostra voce»: è questo il messaggio che Donald Trump cerca di trasmettere, accettando ufficialmente la nomination, non solo ai cittadini americani, «a tutti gli uomini e le donne dimenticati dalla nazione», ma soprattutto al proprio partito. La spaccatura realizzatasi tra i repubblicani durante le primarie si riflette infatti nella convention repubblicana di Cleveland, Ohio. Un evento segnato da un clima di divisione e aspre divergenze interne per i mancati endorsement e soprattutto per i grandi assenti: i due ex presidenti George H.W. Bush e George W. Bush, gli ultimi due candidati alla presidenziali sconfitti da Obama, John McCain e Mitt Romney, e poi i grandi sconfitti delle primarie Jeb Bush, John Kasich, Rand Paul.

Ogni giornata ha uno slogan diverso: Make America Safe Again, lunedì 18 luglio, poi di seguito Make America Work Again, Make America First Again e infine Make America One Again. La giornata inaugurale, come da tradizione, lascia spazio alla «candidata» a first lady, ma l’intervento di Melania Trump catalizza l’attenzione e i commenti dei media non tanto per i suoi contenuti, ma per l’evidente plagio di alcuni passaggi dell’omologo discorso tenuto da Michelle Obama nella convention democratica del 2008. L’incidente non migliora l’immagine di Melania, che secondo i sondaggi gode di un tasso di popolarità mai così basso dai tempi di Kitty Dukakis, moglie del candidato democratico alle presidenziali del 1988, Michael Dukakis. La polemica sul plagio finisce per porre in secondo piano la proclamazione ufficiale del candidato repubblicano, che toglie ogni dubbio su clamorosi ribaltoni della fazione «Dump Trump» contraria alla candidatura del milionario outsider. Tra gli ospiti che si alternano sul palco di Cleveland, il tema ricorrente è l’attacco personale alla sfidante democratica. Il nome di Hillary Clinton ricorre con una frequenza maggiore di quello di Donald Trump, e non solo nei discorsi degli ospiti più eccentrici. Anche lo speaker della Camera, Paul Ryan, e i due candidati alle primarie che per primi hanno dato credito e sostegno a Trump, Ben Carson e Chris Christie, focalizzano ancora una volta la loro narrazione sui disastri della presidenza Obama e sulle colpe di Hillary Clinton da ex segretario di Stato, senza per ora proporre una visione e un respiro davvero nuovo al programma per la guida del Paese.

Il mercoledì sarebbe il giorno di massima visibilità per il candidato alla vicepresidenza, annunciato da Trump il 15 luglio, con un giorno di ritardo per la concomitanza con i tragici eventi di Nizza. Mike Pence, cattolico evangelico di origini irlandesi, è un social conservative, noto sostenitore del Tea Party, poco noto all’estero, ma una figura ormai di riferimento negli organi del partito, scelta anche per bilanciare la natura fortemente anti-establishment del candidato presidente. Nato nel 1959 in Indiana e attuale governatore dello Stato, è l’ottavo degli ultimi dieci candidati ad aver servito il Congresso da deputato, dal 2003 al 2013, come rappresentante eletto sempre in Indiana. Le sue posizioni in economia e diritti civili sono ben note, dalle critiche agli sperperi e alle tasse del governo federale all’opposizione all’aborto, ai matrimoni omosessuali e all’apertura delle frontiere, ma il suo discorso – piuttosto pacato e ironico – verrà offuscato da altri due interventi. Trump decide infatti di ignorare i protocolli e rompe il silenzio che dovrebbe essere tenuto dal candidato in pectore con una controversa intervista al «New York Times» in cui interroga sull’utilità della Nato e sui costi dell’internazionalismo americano. Da Cleveland, invece, Ted Cruz smuove le acque annunciando alla platea la sua opposizione alla nomination di Donald Trump. «Vota seconda coscienza», il suo messaggio, è subito preso in prestito da Hillary Clinton e rilanciato dal suo staff sui social network per evidenziare l’inadeguatezza del suo avversario. Cruz è accolto inizialmente da un applauso da parte dei militanti che speravano nella ricomposizione di una frattura maturata dopo una campagna elettorale molto accesa e mai priva di colpi bassi, con Donald Trump che ha spesso ironizzato sull’aspetto fisico della moglie del senatore texano e fatto riferimento a un non precisato coinvolgimento del padre di Cruz nell’assassinio di Kennedy. Dopo il suo grande rifiuto, Ted Cruz è costretto ad abbandonare subito il palco, accompagnato da insulti e offese, mentre Trump compare a sorpresa in tribuna, tra i presenti. La frattura tra i due ex sfidanti alle primarie potrebbe penalizzare la corsa alla Casa Bianca di Donald Trump, alla ricerca di sostegno e nuovi consensi nella cosiddetta «Bible Belt» e nel blocco elettorale dei latinos, da sempre fedele ai democratici e oggi, più che mai, preoccupato dalle posizioni del magnate newyorchese in tema di immigrazione e blocco degli ingressi.

Nella giornata conclusiva, prima dell’atteso discorso del candidato, i repubblicani lasciano spazio al co-fondatore di PayPal, Peter Thiel – gay dichiarato – per risollevare l’immagine del partito tra i suoi elettori più liberal in materia di social issue, dopo quattro giorni di assoluta prevalenza delle voci più conservatrici del partito.

Il discorso di accettazione di Donald Trump, in termini di durata è il più lungo dal 1972. Come toni, rispecchia quelli molto plumbei, severi e negativi della convention, a tratti quasi apocalittici quando descrive il lascito di Hillary Clinton da ex first lady, senatrice e segretario di Stato: «morte, distruzione, terrorismo e debolezza». Anche nel discorso di chiusura, la critica e l’alternativa a Hillary Clinton («un burattino controllato dai grandi donatori») rappresenta lo snodo centrale della piattaforma politica del partito repubblicano entrato nell’era Trump: il candidato invoca un cambio di passo, ormai necessario dopo un recente passato di «povertà e violenza nel Paese e di guerra e distruzione all’estero».

In politica estera sembra sempre più intenzionato a ripudiare dopo appena dodici anni l’attivismo internazionale dei repubblicani dell’allora candidato George W. Bush, il quale proprio nel suo secondo discorso di accettazione della nomination, nel 2004, parlava della necessità di promuovere libertà e democrazia in Medioriente. Trump accusa invece la sua sfidante per l’instabilità politica maturata in Iraq, Siria, Libia e soprattutto in Egitto, nonostante Hillary Clinton fosse tra i pochi sostenitori del regime di Mubarak come fattore di sicurezza ed equilibrio nell’area. In linea con le prese di posizione a tratti ondivaghe della sua campagna delle primarie, Donald Trump smentisce le sue posizioni più oltranziste in tema di muri e frontiere, ma fa i nomi di alcune delle vittime di omicidi perpetrati da immigrati irregolari. Fa riferimento alla necessità di riunificare il Paese, tende la mano al mondo Lgbt, poi lancia accuse tutt’altro che moderate alla figura di Barack Obama («ha usato il pulpito della presidenza per dividerci in razza e colore della pelle») e, a proposito del tema della sicurezza e della criminalità, ripropone l’antica retorica del «Law and Order», lanciata da Richard Nixon nelle presidenziali del 1968.

La sua maggioranza silenziosa, Donald Trump, che al momento è dietro Hillary Clinton di diversi punti percentuali nei sondaggi, prova a individuarla nella classe media, ma il suo blocco elettorale, così come il suo partito di riferimento, è ancora tutto da ricostruire.