Il caso Australia, all’altro capo del mondo. Anche se per un soffio, la coalizione di destra che guidava l’Australia ha ottenuto nelle recenti elezioni politiche una maggioranza di seggi alla Camera dei rappresentanti sufficiente per il sostegno al governo federale: partito liberale e partito nazionale (le due formazioni della coalizione) hanno infatti conquistato 76 seggi su 150. Una maggioranza raggiunta sul filo di lana. Il partito laburista, capofila dell’opposizione, non ce l’ha fatta a scacciare i conservatori dal potere ma ha conquistato comunque 69 seggi, 14 in più rispetto alla precedente legislatura (la coalizione governativa, allora, aveva ben 90 seggi). Malcom Turnbull, primo ministro e leader liberale, aveva voluto addirittura il doppio scioglimento, sia della Camera che vota la fiducia al governo federale, sia del Senato, che, seppure non legato dal rapporto fiduciario al governo, comunque è di carattere elettivo.

Il premier conservatore aveva voluto quel doppio scioglimento, un caso più unico che raro nella storia moderna australiana, perché il Senato aveva respinto una legge importante: la legge che regolava in modo diverso il ruolo sindacale nell’industria delle costruzioni. Il Senato aveva respinto quel provvedimento con 36 voti contrari e 34 favorevoli. La legge rientrava nel programma economico della destra, che punta a trasformare l’economia australiana da estrattiva a innovativa e guarda alla flessibilità del lavoro come leva per favorire l’innovazione: questa è la ricetta della coalizione di destra australiana guidata dal moderato Turnbull.

Il premier conservatore aveva voluto le elezioni anticipate per avere un mandato forte dagli elettori. Invece ha ricevuto un sonoro schiaffo: può fare il nuovo governo, ma esso sarà debolissimo, appeso a un singolo voto alla Camera e, assai probabilmente, alla mercé dei senatori indipendenti «populisti» alla Camera alta. I conservatori dunque non hanno il loro mandato; né i laburisti, pur aumentando voti e seggi, sono riusciti a scalzare le destre. Destre in crisi, laburisti in difficoltà. E intanto continua la penetrazione nel sistema politico australiano di candidati e movimenti populisti a destra, e dei verdi – Greens in Australia – a sinistra.

Negli ultimi anni anche l’Australia ha assistito a una frammentazione politica crescente. L’issue immigrazione a destra e il tema ambientalista a sinistra dividono schieramenti e opinioni pubbliche e rendono complicato il processo politico e di governo. È molto interessante annotare i fatti. Malcom Turnbull era diventato leader del partito liberale e premier grazie a una manovra del suo partito che aveva messo in minoranza il suo predecessore, Tony Abbott, vincitore delle elezioni. Turnbull, l’aprile scorso, ha deciso di cercare un mandato popolare che non aveva ottenuto in precedenza. Una vicenda quasi identica era avvenuta pochi anni prima con i governi laburisti: Kevin Rudd, leader della sinistra, nel 2007 aveva battuto in campo aperto lo storico leader della destra John Howard. Nel 2010, però, una manovra interna al suo partito, il laburista, lo rovescia e lo sostituisce con Julia Gillard. Nell’agosto successivo quest’ultima cerca il mandato popolare. Prende però una batosta, anche se comunque riesce a formare il nuovo governo federale, con una maggioranza risicata e grazie al sostegno di alcuni parlamentari indipendenti.

Che cosa vuol dire tutto ciò? Una cosa molto semplice: l’Australia ha un sistema politico, e una società, spaccata verticalmente. L’opinione pubblica non gradisce granché le agende politiche di governo dei due schieramenti, una volta che questi arrivano al potere. La frammentazione a destra e a sinistra fa il resto: in particolare a sinistra, con la divisione tra laburisti comunque legati ai sindacati, e i verdi, fortemente critici nei confronti di una economia ecologicamente poco sostenibile. Il sistema politico bipartitico australiano non riesce più a produrre un processo di governo funzionale.

In questo deficit di governo l’Australia si dimostra assai simile ai Paesi occidentali, afflitti da crisi sistemiche dei governi. Il fatto particolare però è che l’Australia, pur essendo un «avamposto occidentale» nel Pacifico, è un Paese con una fortissima connessione con le economie rampanti della East Asia, dalla Cina alla Corea del Sud e a Taiwan, senza dimenticare India, Vietnam, Thailandia, Singapore e ovviamente Giappone. L’Australia esporta massicciamente importanti risorse naturali, carbone, uranio (è l’«Arabia saudita» dell’uranio, tanto per capirci), ferro, in quelle economie rampanti. Canberra in teoria dovrebbe essere al riparo dalle grandi incertezze del mondo avanzato.

In teoria.

In realtà, ormai da tempo anche l’Australia soffre le sue contraddizioni. È una economia prevalentemente mineraria, e quindi poco manifatturiera, un grande e progredito produttore di materie prime, quindi dipendente dai mercati legati a questo segmento produttivo. Quando la domanda internazionale di materie prima oscilla o, come è accaduto negli ultimi mesi, cade, arrivano i guai. I conservatori vorrebbero trasformare l’economia australiana tramite la solita «flessibilità del lavoro»; i verdi vorrebbero mettere il guinzaglio all’economia mineraria; i laburisti tendono, nei programmi elettorali, a favorire alcune istanze sociali. Però la spaccatura frontale destra/sinistra da un lato, e le frammentazioni emergenti dall’altro, bloccano l’implementazione delle rispettive agende pubbliche. Si ha così una sorta di circolo vizioso, per cui un sistema politico spaccato e tendenzialmente frammentato non riesce a favorire una agenda pubblica innovativa: ciò che acuisce a sua volta la crisi dei partiti e le loro divisioni, ostacolando la piena attuazione delle rispettive progettualità politiche.

L’Australia assomiglia insomma a una qualunque democrazia bloccata occidentale. Per carità, rimane un Paese solidissimo dalle enormi risorse naturali e dal grande capitale umano. Ma con un sistema politico disfunzionale come dimostrano le vicende Rudd-Gillard prima, Abbot-Turnbull poi. Tutto il mondo (occidentale) è Paese!