E poi dicono – dalle nostre parti lo dicono soprattutto i 5 Stelle – che la destra e la sinistra non esistono più. Esistono, eccome: solo che a fare un discorso di destra può essere un politico che appartiene a un partito di sinistra e a fare un discorso di sinistra può essere un politico che appartiene a un partito di destra. Non sono forse un partito di destra (di centrodestra, tradurremmo, in italiano) i conservatori britannici, gli orgogliosi Tories della più grande tradizione liberale europea? Ebbene, leggete il discorso che Theresa May ha fatto a Birmingham lunedì scorso, dopo un processo di investitura che è stato un modello di rapidità e chiarezza: faccio fatica a pensare al leader di un importante partito socialista europeo che abbia fatto o possa fare un discorso più a «sinistra» di questo.

Dalla leader di un partito che ha indetto il referendum sull’Europa e che comprende e rispetta le ragioni del Leave ci si poteva attendere una difesa di questa disgraziata iniziativa politica. Niente di tutto questo. Il referendum è menzionato quasi di sfuggita: ci penserà il Parlamento e il partito che lo controlla a trattare con l’Europa i termini del distacco (…se poi ci sarà). Theresa May è andata subito al cuore del problema sociale e politico che il referendum ha rivelato, la spaccatura del Paese in due «nazioni», nelle Two Nations di Disraeli, i ricchi e i poveri, gli istruiti e gli ignoranti, i cosmopoliti e i locali, gli avvantaggiati e gli svantaggiati dalla globalizzazione. Ed è un discorso alla Disraeli quello che la leader del partito ha fatto, un discorso di unità della nazione: We can make Britain a country that works for everyone,«un Paese che funziona per tutti e per ciascuno».

Un discorso che parte sottolineando le ingiustizie e la spaccatura in classi della società britannica (chi nasce povero campa in media nove anni in meno di chi nasce ricco, i neri sono trattati peggio dei bianchi dalla polizia e dai giudici, un ragazzo di classe operaia ha possibilità assai minori di un suo coetaneo di un ceto più alto di frequentare l’università, le donne guadagnano meno degli uomini, e via seguendo) e si conclude con una promessa solenne: «Sotto la mia guida il partito conservatore si metterà al servizio – completely, absolutely, unequivocally – della gente comune, of the ordinary working people». In mezzo ci sono affermazioni molto chiare su che cosa la premier intende per una Gran Bretagna «che funziona per tutti».

Anzitutto un’economia che funziona per tutti, riconoscendo che l’attuale fase di globalizzazione – la libera circolazione di capitali, la concorrenza di Paesi a bassi salari, l’immigrazione – crea gravi problemi per i lavoratori meno qualificati, per imprese meno competitive, per regioni e città periferiche. Non solo welfare, ma politiche industriali: le parole che usa e gli esempi che suggerisce faranno rivoltare nella tomba la grande leader donna che l’ha preceduta alla guida della Gran Bretagna e sembreranno bestemmie ai sostenitori del fondamentalismo di mercato. E i Ceo delle grandi imprese di certo non apprezzeranno le indicazioni di riforma che essa suggerisce in due passaggi del suo discorso intitolati significativamente: Putting people back in control Getting tough on corporate irresponsability.

Solo buona retorica in un momento difficile? No, un acuto senso politico che fa cogliere alla May il messaggio profondo – di classe, si sarebbe detto una volta – del voto sulla Brexit: «Non fraintendete – dice in un passaggio cruciale del suo discorso – il referendum è stato certamente un voto per uscire dall’Unione europea, ma è stato anche un voto per un grande mutamento, for serious change». E di conseguenza – eliminato Farage che dopo Brexit non ha altre politiche da proporre; paralizzato un Labour Party immerso in beghe di altri tempi – la nuova leader dei Tories lancia un partito aduso a svolte radicali sulla grande pista di Disraeli, della ricomposizione dell’unità della Nazione.

Se poi ce la farà, è tutto da vedere: la May è una politica di lungo corso, che condivide gran parte delle posizioni conservatrici, talora reazionarie, del suo partito e che sinora non ha dato prova di sapersi muovere ai piani alti della geopolitica. Ma così era anche Margaret Thatcher, ai suoi esordi.

 

[L’articolo è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» del 13 luglio 2016]