Gli effetti della grande crisi sul lavoro degli italiani sono stati estremamente forti. È bene ricordarlo. Non per deprimersi, ma per rendersi conto che è necessario un progresso potente per tornare a una quantità e qualità dell’occupazione almeno paragonabile a quella del 2008. Per rendersene conto, possono essere d’aiuto alcune interessanti tabelle pubblicate dall’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale (in particolare alle pp. 107-109), nelle quali sono comparate la dimensione e la struttura (per settore, professione, età, nazionalità e territorio) degli occupati in Italia del 2008 e del 2015; queste tabelle tengono poi già conto del discreto recupero che si è realizzato nell’ultimo anno.

Nell’insieme, gli occupati sono 626 mila in meno. Tantissimi. Ma le informazioni più interessanti vengono, più che dal saldo netto, dalla composizione delle variazioni. A livello di settore, perdono moltissimi occupati le costruzioni (484 mila), per la crisi dell’edilizia e il crollo degli investimenti infrastrutturali, e l’industria (421 mila); ma anche il commercio (258 mila), a causa della caduta dei consumi interni; e la pubblica amministrazione/istruzione (228 mila) a causa dell’austerità. Gli occupati aumentano in pochi ambiti. Innanzitutto nel settore dei servizi alle famiglie (370 mila), quindi negli alberghi e ristoranti (174 mila), grazie alle buone dinamiche del turismo.  Guardando alle professioni, la trasformazione è profonda: perdiamo operai e artigiani (più di un milione) e tecnici e professionisti ad alta qualifica (642 mila); guadagniamo addetti alle professioni esecutive (814 mila) e non qualificate (428 mila).

Netto anche il cambiamento nella composizione per età: abbiamo quasi due milioni di occupati giovani (nella fascia 15-34 anni) in meno (anche – ma certo non solo – per motivi demografici) e oltre un milione e 800 mila occupati anziani (di oltre 50 anni) in più. Se guardiamo alla nazionalità scopriamo che gli occupati italiani sono ben un milione e 300 mila di meno, e che invece gli stranieri aumentano di quasi 700 mila.

Infine, la riduzione degli occupati è un fenomeno prevalentemente meridionale: al Sud ci sono 482 mila lavoratori in meno. Sono dati che preoccupano molto, specie se letti con una prospettiva d’insieme. Scopriamo che il problema non è solo la riduzione quantitativa dell’occupazione, ma anche e soprattutto la sua trasformazione qualitativa: che va in direzione opposta a quanto sarebbe auspicabile. Si riducono gli occupati giovani, italiani, a maggiore qualifica, nel pubblico e nel privato; si riducono i tecnici, gli artigiani, gli operai nell’industria e nelle costruzioni. Aumentano i lavoratori a qualifica più bassa, e in particolare gli immigrati che lavorano nel Centro Nord come collaboratori domestici e badanti. Meno tecnici e più camerieri. Restano al lavoro gli occupati più anziani.

Descrivono una fase terribile di un Paese che invecchia, si ferma, che ripiega su se stesso. Suggeriscono che non basta monitorare gli andamenti d’insieme del mercato del lavoro, ma che occorre studiarne anche le trasformazioni; che non basta accontentarsi di un occupato in più se costui lavora prevalentemente con mansioni (e stipendi) più basse (e precarie). È l’occupazione qualificata, pubblica e privata, e a maggiore retribuzione, che ci serve: per restare un Paese avanzato (e civile); per dare un futuro ai più giovani che hanno investito su se stessi; per aumentare la qualità dei servizi, pubblici e privati, ai cittadini e la capacità competitiva delle imprese. Non è certo facile crearla: ma saperlo e provarci sarebbe un buon inizio.