Al termine di una lunga campagna elettorale, iniziata sottotraccia a partire dall’annuncio che Pisapia non si sarebbe ricandidato, da ieri Milano ha un nuovo sindaco. Giuseppe Sala, l’uomo che molti pensavano avrebbe chiuso la partita prima ancora di giocarla, ha faticato parecchio contro un avversario capace di interpretare le diverse voci del centrodestra come Stefano Parisi.

Cinque anni fa, nel 2011, lo slogan della campagna elettorale di Pisapia era stato «Il vento sta cambiando». Un’intuizione vincente, sostanziata dalla capacità di coinvolgere un maggior numero di elettori delle fasce giovanili, con forme di mobilitazione in cui per la prima volta ebbero un ruolo importante i nuovi sistemi di comunicazione, soprattutto i social. Un clima che all’annuncio della vittoria di Pisapia portò migliaia di milanesi a riversarsi spontaneamente in piazza Duomo per festeggiare l’evento.

Oggi tutto questo appare lontano. Sono cambiati gli attori, ma soprattutto è cambiato il contesto. Allora la contrapposizione era tra due candidati che rappresentavano e si proponevano di rappresentare mondi diversi, oggi le opposizioni parlavano di candidati gemelli.

È, ovviamente, ancora troppo presto per azzardare un’analisi del voto. Alcuni dati sono però incontrovertibili. Primo l’astensione. Possiamo interpretarlo in diversi modi: resta il fatto che quasi un elettore su due già al primo turno ha scelto di non esercitare il diritto di voto. Secondo: i vecchi schemi della rappresentanza sociale sono saltati, ma non il nostro modo di leggere i risultati elettorali. Un tempo le periferie erano la «cintura rossa» che accerchiava la città borghese, oggi la coalizione di Sala al primo turno ottiene maggiori consensi nella fascia centrale mentre le periferie premiano la coalizione di centrodestra. Un dato su cui riflettere, senza dimenticare che le periferie sono il luogo più deprivato della città, ai cui problemi Sala nel suo primo discorso da sindaco dichiara di voler guardare con particolare attenzione. La dissoluzione del vecchio mondo industriale ha cambiato il volto e la composizione sociale dei quartieri: invecchiamento della popolazione, immigrazione, nuove povertà, crisi del piccolo commercio, marginalità, hanno qui la loro sede elettiva, insieme a segnali di una nuova partecipazione dal basso ancora senza rappresentanza politica. Potremmo dire che questi territori e questa fascia di popolazione, con differenze significative al proprio interno, sperimenta il lato oscuro della globalizzazione ed è quindi più sensibile agli appelli identitari e alle roboanti affermazioni antieuropee e xenofobe. Ma anche questa appare una semplificazione eccessiva, una forzatura, che non spiega le ragioni per le quali Forza Italia, in evidente crisi, è comunque riuscita a ottenere il 20% dei voti, seconda solo al Pd.

La tornata elettorale ci ha restituito immagini diverse di città alle prese con problemi comuni, ma ciascuna con una sua specificità. A Torino le vecchie barriere operaie hanno abbandonato Piero Fassino, un rifiuto del vecchio establishment più che l’adesione a un programma.

A Milano invece i 5 Stelle non sfondano. Segno di buona amministrazione, si è detto. Ma, se è così, perché il candidato del centrosinistra e la stessa lista sostenuta da Pisapia hanno faticato così tanto? Certo era difficile appassionarsi a una campagna elettorale incapace di dare forma a una visione di città che non fosse la reiterazione del mantra sul rilancio di Milano, sancito dal successo di Expo (un tema sul quale bisognerà prima o poi aprire una discussione seria e non manichea, a partire dalla questione del destino delle aree).

Del resto, c’è una discrasia evidente fra elementi strutturali e forme di governo. Milano ogni giorno deve far fronte a centinaia di migliaia di cittadini a tempo, i cosiddetti city users, come ci ha insegnato a chiamarli Martinotti, che intrattengono un rapporto nomade con la città ed esprimono una domanda di servizi e di mobilità che non coincide con quella dei residenti. E soprattutto sono espressione di una dinamica economica (economia dei servizi e della conoscenza) che ha con i luoghi un rapporto assai meno stretto di quanto non fosse con l’assetto industriale del secolo scorso. Determinando una sfasatura tra immagine della città e realtà sociale che fatica a trovare una rappresentanza elettorale. Sono problemi che rimandano al grande assente di questa competizione elettorale: la città metropolitana, istituzione di cui a parole tutti affermano la centralità ma che stenta a essere percepita dai cittadini, forse anche a causa del fatto che non è elettiva. Nel vantare i grandi benefici della soppressione delle province non si è tenuto conto dei limiti derivanti dall’aver creato una realtà esangue come la città metropolitana. Una scelta che aumenta il numero di organismi percepiti come lontani, se non estranei, alla gente, proprio per il fatto di non aver ricevuto una investitura popolare sostituita dal carisma, con tutto ciò che di scivoloso la parola si porta dietro, personale o dalle tecnostrutture per definizione incapaci di visione che sono solo della politica.

È in questo contesto che, alla fine, i milanesi hanno scelto di dare fiducia a Sala. Ma stavolta non vedremo piazza Duomo invasa da gente in festa come cinque anni fa. Qualcuno dirà, riecheggiando un vecchio slogan, che siamo diventati un Paese normale. Io ritengo sia semplicemente aumentata la distanza tra rappresentati ed eletti. Una deriva che non mi pare positiva e a cui corrisponde la riduzione di spazi di dibattito e di analisi sul destino della comunità.