Che fare con le critiche? Se rispondi sei permaloso. Se non lo fai, penseranno che non hai argomenti. Bel dilemma. Ma dopo avere letto le critiche che mi rivolge Sergio Paronetto preferisco chiarire.

Paronetto mi trova «del tutto incapace» di intendere il magistero universale di Francesco. Ebbene ha ragione: non solo ne sono incapace, ma non intendo farlo. Io di mestiere faccio lo storico e studio il papa calato nel suo tempo, non il messaggero dello Spirito Santo. Quando leggo che il magistero di Francesco attinge a una ricerca «biblica, evangelica, teologica, tomista, gesuita, francescana, mistica, personalista, ecologica, conciliare», confermo: non capisco. Eppure studio la storia della Chiesa da venticinque anni. Quando Francesco rifiuta di incontrare i dissidenti cubani, è più gesuita o ecologico? Quando abbraccia Hebe de Bonafini, che danzò d’allegria vedendo cadere le Torri Gemelle, è più evangelico o conciliare? In breve: io parlo di storia, non di teologia e per fortuna da qualche tempo in qua la storia secolare ha preso il posto della storia sacra.

C’è poi un problema di fonti. Paronetto inorridisce perché cito parole in libertà del Papa. A fare fede è il magistero, quel che il papa legge e l’indomani «L’Osservatore Romano» riporta. Per me è vero l’esatto opposto. Del papa e del suo mondo capisco di più quando esce dal copione o leggendo testi passati al vaglio dei suoi teologi? Prendiamo un esempio: incontrando giudici e giuristi il 3 giugno scorso, Francesco ha invocato l’impegno della Chiesa nella «grande politica». Eppure pochi giorni prima lo stesso papa aveva fatto una politica ben piccina incontrando la Bonafini. Agli occhi del mondo essa è nota come l’eroica madre che sfidò la dittatura. Ma tanta acqua è passata sotto i ponti e come simbolo dei diritti umani è oggi inverosimile: ne ha fatto un business sfociato in corruzione, li ha usati come randello politico contro ogni dissenso, ha cantato lodi ai più autoritari governi del globo. E ha accolto il nuovo governo argentino a suon di improperi: da buona peronista, lo giudica illegittimo, incarnazione di un’oligarchia egoista nemica del pueblo. Libera di pensarlo. C’è però un problema: piaccia o no, è il governo eletto dagli argentini. Ebbene, in tale contesto, Francesco l’ha ricevuta festosamente: in segno di riconciliazione. Riconciliazione di chi? Non certo degli argentini, che su di essa si azzannano; semmai dei peronisti, la cui divisione è stata causa di sconfitta. Che dire? Quando il papa compie un atto produce effetti, lo voglia o no. L’incontro con Hebe de Bonafini è dunque diventato un atto politico ostile al governo argentino. Il papa lo sapeva così bene da mettere le mani avanti: ciò che essa dirà, ha avvertito, saranno opinioni sue. Astuzia gesuita? E proprio così sono andate le cose: profittando dello scenario in mondovisione che il papa le aveva allestito, la signora ha caricato come un bisonte contro il governo del suo Paese, mischiando bugie grossolane a deliri politici. Così, mentre il papa invocava l’«alta politica» in pubblico, la cucina di Santa Marta preparava un piatto provinciale dal sapore un po’ eversivo, cui nei giorni successivi ne è seguito un altro ancora più inquietante: il lungo incontro privato col giudice che in Argentina indaga sulla ex presidente. A che titolo? Boh.

Ma allora ho ragione, esclamerà il mio critico: sono schiavo dei miei studi sul peronismo. Ci sarebbe da offendersi, ma pazienza: ho dedicato anni di ricerche alla storia della Chiesa argentina. È stata lei ad accompagnarmi per mano al peronismo, ai populismi e oltre. È che tra religione e populismo v’è un nesso profondo. Ora, da storico sarei pazzo o sprovveduto se non interpretassi Francesco alla luce della storia del suo Paese e della sua Chiesa. Bergoglio ha trascorso l’intera vita in Argentina, immerso nella sua vicenda politica e religiosa: a mio modesto parere, perciò, chi mi imputa di non capire il magistero del Papa, ne guadagnerebbe a studiare il cattolicesimo argentino.

Penso che il papa sia un tipico populista. Poiché però so del frequente uso improprio di tale termine, avevo spiegato cosa intendevo. Non l’ho usato per screditare il papa. Quando perciò leggo che il popolo di Francesco è «ebraico, evangelico, apostolico, ecclesiale, ecumenico, indigeno, migrante, profugo, perseguitato, carcerato, nazionale e universale, femminile, giovanile, associativo», mi cadono le braccia: è stato inutile. Ci riprovo: quei popoli elencati in modo così pedante, sono alberi che formano una foresta; il populista chiama tale foresta pueblo; ed è proprio in quel pueblo che il papa individua una superiorità etica su cui poggia la sua visione manichea del mondo. Ma dove tale visione s’impone, la sfera politica perde autonomia e da terra di pluralità diventa ancella del manicheismo religioso: addio istituzioni repubblicane, addio democrazia liberale, addio pluralismo politico. Esagero? Guarda caso è quello che è avvenuto proprio nella storia argentina, dove tale visione è stata causa di violenza politica, guerra ideologica, declino economico, povertà sociale.

L’idea che il popolo del costituzionalismo liberale si trasfiguri nel pueblo del populismo mi pare un tremendo passo indietro, da cui un giorno l’Europa, in un sobbalzo di dignità, dovrà pur difendersi reclamando con vigore la sua laicità; o meglio ancora la sua storia di fecondo incontro tra teologia cristiana e filosofia dei lumi, quella in cui da sempre Bergoglio addita il nemico. Ciò che il populismo prospetta è che quel che è di Cesare lo è perché gli viene dal pueblo; pueblo che è incarnazione di Cristo e custode delle virtù cristiane: vino vecchio in botte nuova, poiché ridà fiato all’antica dottrina che l’ordine legittimo è quello conforme alla legge di Dio; il popolo sovrano soccombe alla nozione teologica del Popolo di Dio. E noi che pueblo non siamo? Noi che non vogliamo Chiese e siamo gelosi della nostra individualità e della nostra etica laica?

Paronetto poi non gradisce che io definisca Francesco antiliberale. Mi sorprendo: almeno su questo davo per scontato che di dubbi non vi fosse l’ombra. Essere liberali non è certo obbligatorio e anzi è un genere che nel mondo cattolico non è mai andato per la maggiore: siamo perlopiù Paesi che per fortuna e dopo alterne vicende hanno adottato il sistema istituzionale della democrazia liberale senza, del liberalismo, sposare l’ethos. Non è un caso. Di certo, l’intera storia di Bergoglio è intrisa di antiliberalismo e di avversione alla tradizione illuminista, né ne ha mai fatto mistero. Le sue encicliche lo confermano: la Evangelii Gaudium è agli antipodi della società aperta cara al pensiero liberale; la Laudato Si’ dipinge il mercato come un demonio assetato di sangue e un mondo in bianco e nero.

Se ne gioveranno almeno i poveri, di cui il Papa si erge a tutore? Lo escludo. Anzi, laddove tale demonizzazione del capitalismo ha spadroneggiato, la cultura paternalista e assistenzialista che se ne ciba inibisce la «grande fuga» dalla povertà di cui parla Angus Deaton. Sono semmai i Paesi che più si sono emancipati dal ricatto morale di chi, evocando la povertà del pueblo, pretendono di condizionarne l’azione economica, quelli che più successo hanno avuto contro la povertà. Si veda l’abisso che separa il Cile e la sua economia di mercato dalla tragedia venezuelana, frutto avvelenato di un ventennio di ottusa economia populista! Sono fatti, su cui il papa tace.

Le reazioni causate dal mio articolo sul papa mi hanno riservato varie sorprese. Sospettavo che avrebbe sollevato un vespaio. So di remare controcorrente e che criticare il papa è un po’ suicida. Ma la sorpresa è stata immensa quando ho scoperto che molte lodi provenivano dall’interno della Chiesa. Ho così compreso di avere gettato sale su ferite aperte nella Chiesa e al cui centro troneggia proprio il papa. Da studioso dei populismi non sono stupito. Ma giunto fino a qui, mi ritiro in buon ordine.