Furono gli architetti della Bauhaus, nei vivacissimi anni Venti, a inventare l’architettura moderna a Berlino, per poi portarsela dietro oltre Atlantico dal 1933 in poi, in fuga dalla Germania hitleriana, come ricorda Franco Romanò nel suo breve saggio di apertura a Doppia esposizione. Berlin 1985-2015, il volume di Natascia Ancarani. E questo, per chi prenda in mano, prima sfogliandolo quasi con foga poi leggendolo e guardandolo con più attenzione, questo bel volume 21x21 è da subito fondamentale per seguire con lo sguardo le immagini in bianco e nero di Elda Papa, Michael Hughes, Wolfgang Krolow, Peter Woelck, insieme a quelle provenienti dal «Landes Archiv» berlinese, prese a Potsdamer Platz, Bernauer Strasse, Prenzlauer Berg, Kreuzberg. Perché è lo sguardo architettonico a svolgere la funzione di filo conduttore nel racconto di una città del tutto unica e irripetibile ma al tempo stesso mai uguale a se stessa come quella che, dopo l’89, è tornata ad essere la capitale della grande Germania.

Il doppio binario, l’uno narrativo l’altro per immagini, risulta particolarmente congeniale a una città imprendibile anche ai suoi visitatori più attenti (e frequenti). In ognuna delle fotografia in cui è ritratta, se ne coglie l’unicità politica e sociale, la storia affatto prevedibile della sua evoluzione, l’azzeramento avvenuto dopo il crollo del muro che si iniziò a costruire in una notte di maggio del ’61, poi fortificato e reso inespugnabile, e infine demolito e assurto a simbolo di un futuro troppo rapidamente immaginato solo e inevitabilmente «migliore» per tutti. C’è, in queste pagine, più Europa che Germania. L’Europa delle macerie, sia quelle lasciate come segni della ferita bellica – il dente cavo del campanile della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche sul Ku’damm – sia quelle prodotte dalle demolizioni per ridefinire il tessuto urbano e dare spazio alle archistar e ai progetti che hanno rivoluzionato intere aree; basti pensare a Potsdamer Platz, oggi molto ammirata dai turisti e assai poco amata, nella sua glaciale perfezione architettonica, dai berlinesi. Ma, in queste pagine, a ben vedere, si può riconoscere anche un po’ di quell’Europa che, oggi, non riesce a dare seguito ai progetti avviati nei primi Cinquanta dai suoi padri fondatori sulla base delle visioni elaborate durante la guerra.

Trent’anni dopo di allora Kreuzberg diventava terreno di esplorazioni sociali, dove i giovani punk si tingevano i capelli di verde e interi Kietze sembravano languire in un infinito dopoguerra, mentre le diverse etnie prendevano possesso dei luoghi, inclusa, spesso, la loro Lebenswelt. O Bethanien, un vecchio ospedale che dalla metà degli anni Settanta, per un ventennio, occupato dai Besetzer (li chiameremmo squatters, oggi, sbagliando) che ne fecero un centro culturale; la Künstlerhaus, in particolare, che grazie soprattutto a donazioni private, fondi statali e internazionali, finanziava progetti artistici e borse di studio, arrivando ad ospitare più di quattrocento artisti proveniente da una trentina di Paesi diversi. O, ancora, il palazzo della Repubblica, già sede del Parlamento della Ddr, che si scelse di demolire nella convinzione di poter cancellare le tracce della scandalosa divisione. Quel palazzo il cui posto, presto, verrà ripreso dal castello degli Hohenzollern, ricostruito, secondo alcuni, con una operazione tanto costosa quanto di cattivo gusto, a pochi passi dalla magnifica Museum Insel.

Per quanto tanto sia stato fatto (spostando, demolendo, ricostruendo) e per quanto sembrino ormai ridotte le possibilità di continuare nella ridefinizione degli spazi urbani, ancora oggi, a oltre venticinque anni dal quel 9 novembre 1989, resta impossibile dire che cosa diventerà, di cantiere in cantiere, questa città larga e lunga, distesa e sviluppata da un lago all’altro, attraversata dai suoi corsi d’acqua e, per chi la vive ogni giorno, da una rete invidiabile di trasporto pubblico, oltre che da chilometri di vere e organiche piste ciclabili (il primo sempre più costoso, per quanto con tariffe straordinariamente flessibili e differenziate; le seconde sempre più pericolose, per quanto gratuite).

Resta, per chiunque non si accontenti di una visita lampo – i voli low-cost e le tariffe abbordabili di stanze e ristoranti fanno ancora di Berlino, nonostante un suo progressivo adeguamento agli standard di altri capitali europee, una città tutto sommato economica – il bisogno di conoscere la storia di tante città nella città e della loro evoluzione nel tempo. Questo libro può essere un ottimo compagno di viaggio.

Infine, un commento estetico-artigianale. Doppia esposizione – che è chiuso da una sezione di testi poetici «berlinesi» di Kunze, Czechowski, Celan, Heym, Szymborska – è un libro bello nel senso più pieno. Straordinariamente curato, ricco ma mai sfrontato. In breve, di una qualità sempre più rara. Per di più, per quel che è e per quel che offre, costa pure poco.