«Non capivo perché ci rimanessero così male se non telefonavo per avvisare che tornavo tardi. Poi ci ho pensato. Era da così tanto tempo che qualcuno non si preoccupava per me, da quando ero con la mia famiglia in patria».

«Dopo una litigata in casa mi hanno chiesto se per me quest’esperienza avesse un valore, che cosa ci trovassi di positivo. Ho risposto subito: la cosa più importante è che mi trattate come gli altri, come trattate i vostri figli. Se c’è qualcosa che non va me lo dite fuori dai denti ma non mi mandate via».

Non è un caso se abbiamo scelto queste parole, che raccontano un vissuto anche problematico, per raccontare i modi con cui stiamo provando a ripensare l’accoglienza diffusa e integrata. Le abbiamo scelte perché la sfida dell’incontro e della partecipazione porta – ben oltre la gratitudine e le emozioni positive dell’accogliere – una solidarietà viva, in cui anche il conflitto è quotidianità. Non solo in famiglia, dato che abbiamo scelto che in ogni progetto, compresenti, ci fossero insieme – ad immaginare il futuro comune – gli operatori dell’accoglienza, le istituzioni (i comuni, l’Ausl, l’università), le comunità della nostra società (famiglie, associazioni, parrocchie, gruppi informali, comunità etniche) ed anche, con il proprio portato, i rifugiati, i migranti.

È questo un filo rosso che unisce l’accoglienza in famiglia agli sportelli – tenuti da rifugiati – nelle case della salute e presso le Asl del servizio di segretariato sociale culture oriented, il co-housing tra giovani italiani e giovani rifugiati del progetto Tandem, i laboratori di comunità sulle competenze trasversali, le forme di contrasto allo sfruttamento lavorativo e alla tratta degli esseri umani. Un filo rosso, appunto, che parte dal coinvolgimento attivo dei protagonisti, un coinvolgimento diretto troppo spesso schiacciato dalle pratiche solo gestionali, troppo spesso dimenticato nelle logiche autoreferenziali di politiche settoriali, che faticano a organizzare una visione più articolata e complessa.

È possibile sperimentare piccoli pezzi di un «nuovo mondo» in cui la convivenza possa partire dalle differenze senza eliminarle, ma anche senza esasperarle?

Il fenomeno dell’immigrazione a Parma è radicato da molti anni. Senza tanti scalpori e notizie di cronaca (fa eccezione il caso Bonsu, che ha visto come vittima – e non come «usuale» colpevole – un giovane cittadino di origine africana, fermato, picchiato e arrestato illegalmente durante un’operazione antidroga in un parco cittadino, e al momento del rilascio oggetto di pesanti insulti razzisti culminati in una «foto-ricordo» assieme a uno dei vigili urbani) Parma ha raggiunto il nono posto nella classifica italiana per numero di residenti stranieri in rapporto alla popolazione italiana (15,6%). Presenza stabilmente integrata nelle nostre scuole, nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle piazze, nonostante la crisi economica abbia colpito con maggior ferocia chi non ha cittadinanza italiana. Ma è di lunga data anche l’attenzione di Parma per i rifugiati e i migranti forzati, se si pensa che già durante i conflitti balcanici la società civile e gli enti locali hanno iniziato a mobilitarsi e accogliere rifugiati e disertori, tanto che Parma è diventata un punto di riferimento per la nascita e l’affermarsi dello Sprar. Quando 15 anni fa si è cominciato a proporre con forza il modello dell’accoglienza integrata e diffusa, le occasioni di contatto interculturale, soprattutto nei piccoli paesi della provincia, erano molto più numerose e accessibili.

Oggi a preoccupare – almeno chi come noi lavora in questo settore e ha a cuore la realizzazione di una convivenza positiva – non sono tanto i numeri: sono forse tanti un migliaio di richiedenti asilo e rifugiati inseriti in progetti di accoglienza in un territorio provinciale che conta circa 450.000 abitanti (di cui quasi 60.000 stranieri stabilmente residenti)? Certamente la nuova stagione dei centri di accoglienza straordinaria che hanno abbondantemente sorpassato per capienza il numero di posti dei progetti Sprar (il rapporto è circa di 5 a 1) ha reso il fenomeno delle migrazioni forzate più presente ed evidente agli occhi dell’opinione pubblica. Pone interrogativi, a tratti spaventa, altre volte agita gli animi di chi non ha ancora accettato l’avvento di una società realmente interculturale.

Quando, circa due anni fa, noi di Ciac onlus abbiamo iniziato a pensare alla possibilità di sperimentare l’accoglienza in famiglia per rifugiati che avessero già completato il percorso di riconoscimento giuridico, avevamo in mente una sfida che nel tempo si è confermata centrale nel nostro lavoro. Si trattava di immaginare nuove opportunità per permettere ai rifugiati di inserirsi realmente nelle nostre comunità e di promuovere la loro autonomia: i posti di accoglienza sono sempre più occupati da richiedenti asilo ancora in procedura, per i quali finalmente sembra esserci la quasi certezza di non essere lasciati in strada, ma parallelamente non sono aumentati i posti e i servizi per chi è già titolare di protezione. E il rischio è che i tempi dei progetti non coincidano con i tempi dell’autonomia, tanto più in un contesto in cui è sempre più difficile garantire l’accesso a un reddito dignitoso e legale, e in cui lo stesso clima sociale e culturale sembra meno recettivo e disponibile a supportare chi ha meno risorse. Sappiamo da ricerche e denunce a livello nazionale e locale che sono tantissimi i rifugiati i quali pure hanno goduto dell’accoglienza in progetti Sprar che finiscono nelle palazzine occupate delle grandi città, nelle masserie delle campagne in cui lavorano stagionalmente in condizioni di sfruttamento, oppure che prendono la via del Nord Europa alla ricerca di fortuna, pur sapendo che ricadranno in una condizione di quasi illegalità a causa delle disposizioni restrittive del Regolamento di Dublino e del Sistema comune europeo d’asilo.

Pensavamo quindi a come offrire non tanto un prolungamento dell’accoglienza, ma un cambio di passo, offrendo ai rifugiati accesso a quel tessuto sociale che spesso nei progetti rimane sullo sfondo ma che può rappresentare una forte spinta non solo per trovare «casa e lavoro», ma anche per estendere le proprie reti sociali e spingersi in una maggiore «immersione» nella comunità locale. E attraverso questo progetto ci stiamo anche impegnando a rivitalizzare un’accoglienza diffusa che ha la potenzialità di facilitare il contatto, ma che senza un incontro reale rischia di issare muri invisibili tra un «noi» e un «loro» che ci allontanano, tanto dalla scoperta quanto dalla soluzione dei problemi comuni.