Commentando il referendum dello scorso 17 aprile, Corrado Del Bò ha denunciato su questa rivista i pericoli dell’astensionismo come opzione politica dalla prospettiva dell’etica pubblica. I punti sollevati sono due:

1) l’uso dell’astensione come arma politica per fare fallire un referendum dà un vantaggio in partenza ai sostenitori del «no», dal momento che c’è sempre un tasso di astensione «fisiologico»: il «sì» e il «no» non giocano alla pari, perché il primo deve superare quel tasso di astensione fisiologico, arruolato indebitamente nel fronte del «no»;

2) l’astensione non può essere promossa da cariche istituzionali che devono il loro ruolo proprio al voto degli elettori.

Questa seconda tesi è del tutto condivisibile: è una grave violazione dell’etica pubblica l’uso partigiano delle cariche pubbliche, in Italia purtroppo frequente; tanto più se questo uso va a delegittimare le basi stesse della democrazia, cioè il voto.

La prima tesi invece è discutibile. In primo luogo, va ricordato per quali ragioni il quorum di partecipazione nel caso del referendum abrogativo è legittimo. Poiché il nostro regime politico è una democrazia rappresentativa, il potere legislativo appartiene al Parlamento. La sovranità popolare, su cui si fonda la legittimazione dei poteri, si esprime nell’eleggere i rappresentanti e nel giudicarne l’operato; e quindi anche nella sfera pubblica, come discussione e critica. Essa, però, non si esprime come potere deliberativo: il potere di fare le leggi appartiene ai rappresentanti, non direttamente ai cittadini: da questo punto di vista, la sovranità è trasferita all’organo legislativo.

Il referendum abrogativo di iniziativa popolare è uno strumento di democrazia diretta che, eccezionalmente, revoca la sovranità legislativa al Parlamento e la riconsegna ai cittadini. Questa revoca è giustificata per garantire una maggiore democraticità al processo legislativo: è possibile appellarsi direttamente ai cittadini, quando le leggi votate dal Parlamento sono particolarmente controverse. Tuttavia, questa apertura alla democrazia diretta non può che essere eccezionale: se infatti fosse possibile sempre, e con facilità, revocare la sovranità legislativa al Parlamento, ogni legge potrebbe essere rimessa in discussione in qualsiasi momento da una minoranza di cittadini organizzati. Questo, dal punto di vista della legittimità democratica, non è corretto: se il regime politico è rappresentativo, si presume che una legge votata dal Parlamento secondo le procedure esprima l’opinione della maggioranza dei cittadini, rappresentati dagli eletti in Parlamento. Se una minoranza di cittadini potesse rovesciare facilmente la decisione del Parlamento, questo vorrebbe dire che la maggioranza parlamentare non può garantire di rappresentare la maggioranza degli elettori, e questo non è accettabile.

Ecco perché il referendum abrogativo prevede il quorum di partecipazione: se il voto diretto dei cittadini deve rovesciare una maggioranza parlamentare, questo deve essere fatto da una parte consistente dei cittadini stessi, non da una minoranza qualunque. Ovviamente, la soglia del quorum si può discutere: non deve essere necessariamente la metà più uno degli aventi diritto al voto, per quanto questa soglia esprima l’idea che deve essere almeno una maggioranza nel Paese a rovesciare l’operato di una maggioranza parlamentare.

Se quindi il quorum di partecipazione è legittimo per queste ragioni, allora è anche legittima la campagna per l’astensione da parte di chi vuole fare fallire il referendum. Nel caso di un referendum abrogativo, infatti, l’elettore va in primo luogo convinto che l’attività legislativa del Parlamento è stata inadeguata ed è quindi giusto, nel caso specifico, revocarla. Promuovere l’astensione, invece, vuol dire sostenere che l’attività del Parlamento è pienamente legittima e non va revocata. Ecco perché la parziale sovrapposizione del «no» con l’astensionismo non è scorretta.

C’è però l’argomento centrale di Del Bò: il partito del «no» ha un vantaggio in partenza, perché parassita l’astensionismo fisiologico, ovvero quel 25-30% di elettori che normalmente, in Italia, non vanno a votare. In prima battuta, l’obiezione sembra forte. Tuttavia, guardando meglio, le cose non stanno esattamente così. Se il problema iniziale è superare la soglia del quorum di partecipazione, non è vero che chi sostiene il referendum parta da zero. Se così fosse, i rapporti sarebbero squilibrati: il «sì», per rendere valido il referendum, dovrebbe convincere il 50% dell’elettorato ad andare a votare, mentre il «no» dovrebbe convincere solo il 25-20% in più oltre all’astensione fisiologica a non andare a votare. Tuttavia, esiste anche un livello di partecipazione fisiologica: se si vanno a vedere tutti i referendum abrogativi svolti finora in Italia, solo una volta l’affluenza è scesa al di sotto del 25%, collocandosi al 23%, quindi comunque vicino a quella soglia. Allora anche il fronte del «sì», partendo da una analisi di questo tipo, deve «scalare» più o meno il 25%, non il 50%.

Questi calcoli, come tutti possiamo vedere, sono aleatori. Infatti dipendono da tendenze storiche, che possono facilmente cambiare nel tempo. Può accadere che il tasso di astensione cresca, e che si facciano sempre più referendum con tassi di partecipazione al di sotto del 25%. Quindi l’argomento di Del Bò ritornerebbe valido. Il problema è che la sua validità dipende interamente dall’andamento dei dati. Invece il nodo è che l’uso politico dell’astensione, nel caso del referendum abrogativo promosso «dal basso», è legittimato dalle questioni di principio esposte all’inizio, non dagli squilibri conseguenti o meno all’astensione fisiologica. È del tutto corretto dire che in generale l’astensione non fa bene alla democrazia. E poiché il voto è un dovere civico ma non un obbligo giuridico, come giustamente sottolinea più volte Del Bò, è solo sul piano dell’etica pubblica condivisa che si può combattere l’astensione e promuovere la partecipazione. Per promuovere l’astensione, non bisogna demonizzare chi si astiene: questo tipo di reazione «morale» rischia di scavare ulteriormente il fossato tra elettori e istituzioni. Per promuovere la partecipazione bisogna dare a chi si astiene delle buone ragioni per partecipare. La responsabilità quindi è delle forze politiche.

Tuttavia, nel caso specifico del referendum abrogativo l’astensione può essere una scelta consapevole, che non mina le basi della democrazia, perché in questo tipo di votazione viene chiesto agli elettori in primo luogo se ritengono legittimo revocare il potere legislativo del Parlamento. Se gli elettori non lo reputano legittimo, l’astensione è una scelta politica consapevole a favore della democrazia rappresentativa. Se li si vuole convincere del contrario, anche qui, bisogna dare loro delle buone ragioni. Un uso troppo frequente e disinvolto dei referendum, invece, rischia di diventare una ragione contro la partecipazione, favorendo l’astensione, come mostrano i referendum più recenti.