La prospettiva che le primarie di New York, stato in cui gli elettori solitamente si esprimono a giochi quasi fatti, potessero essere determinanti in campo democratico è iniziata ad emergere con il Western Tuesday. A partire dal 22 marzo infatti Bernie Sanders è riuscito a conquistare sette Stati, lasciando solo l’Arizona a Hillary Clinton, e facendo sperare i sostenitori del feel the bern che lo scontro di New York, con i suoi 245 delegati in palio, potesse interrompere la corsa della front runner. Che quello del 19 aprile potesse essere un appuntamento decisivo, anche a causa dei legami dei candidati con l’Empire State (Clinton ha rappresentato New York al Senato per otto anni, mentre Sanders è nato a Brooklyn), si evinceva dall’inasprimento della retorica elettorale. Nelle settimane precedenti Sanders aveva infatti accantonato il suo fair play mettendo in discussione le competenze di Hillary Clinton, attaccandola su temi quali la guerra in Iraq, il sostegno ottenuto dalle grandi corporation e da Wall Street e l’appoggio a una serie di accordi commerciali internazionali.

Per mantenere in vita la sua corsa verso la nomination, Sanders avrebbe dovuto vincere in maniera netta a New York, ma non ci è andato nemmeno vicino. Clinton ha conquistato 139 delegati, Sanders solo 106, con uno scarto di 16 punti percentuali. La candidata dell’establishment democratico a questo punto può contare su 1948 delegati (di cui 502 super-delegati) accorciando ulteriormente la sua distanza rispetto al tetto dei 2.383 delegati necessari per essere incoronata alla convention di Philadelphia.

Durante le due settimane che hanno preceduto il voto, Clinton, appoggiandosi alla macchina newyorkese del Partito democratico, ha condotto una campagna che in alcuni commenti è stata paragonata a quella di un candidato alla carica di sindaco piuttosto che alla corsa verso la poltrona presidenziale. Oltre a mettere in luce la presunta incapacità di Sanders di realizzare concretamente le promesse elettorali, Clinton ha insistito su temi quali le armi e l’aborto, e su problemi particolarmente rilevanti per gli elettori di New York, ossia i trasporti e la questione abitativa. Durante il discorso di Staten Island, due giorni prima del voto, ha inoltre sottolineato il suo impegno per l’approvazione del Zadroga Act e ha provato a enfatizzare le sue doti di leader progressista capace di lavorare superando le divisioni partitiche pur di ottenere risultati concreti.

La campagna dell’ex segretario di Stato ha strizzato l’occhio ai gruppi demografici che potrebbero essere decisivi a novembre, in particolare le donne e gli afro-americani. Analizzando nel dettaglio il voto di New York emerge che la strategia di Clinton ha avuto successo, vincendo lo Stato con il sostegno delle donne, il 63% delle quali ha votato in suo favore e con il 63% dei voti dei latinos. Clinton ha vinto 75 a 25 tra gli afro-americani, mentre le percentuali di sostegno arrivano al 79% nel caso delle donne afro-americane. Le uniche constituencies in cui non è riuscita a fare breccia sono quelle degli uomini bianchi e dei giovani che hanno appoggiato Sanders. Ed è in particolare a quest’ultimo gruppo demografico, il 65% del quale ha votato a favore di Sanders, che Clinton sta guardando in vista del voto di novembre. Durante il discorso della vittoria all’Hotel Sheraton si è rivolta ai sostenitori di Sanders sostenendo di avere molto in comune con loro. E non a caso ha fatto riferimento a due temi cari alla campagna dell’avversario, l’aumento dei salari e la diminuzione delle diseguaglianze economiche.

Con un tale margine in termini di delegati risulta difficile che il senatore del Vermont possa recuperare lo svantaggio e aspirare realisticamente alla nomination. Nonostante ciò, l’effetto Sanders, che durante la campagna ha già indotto Clinton a spostarsi più a sinistra su alcuni temi, cambiando ad esempio la sua posizione sul Ttip, potrebbe non esaurirsi con la sconfitta di New York. Nelle restanti tappe delle primarie Sanders potrebbe continuare a conquistare delegati e ciò potrebbe avere un impatto sulla convention democratica portando magari all’elaborazione di una piattaforma meno centrista rispetto a quella auspicata dalla Clinton e dall’establishment del Partito democratico, soprattutto sui temi economici.