Da tempo si levano forti critiche al modello di sviluppo capitalistico. Complice anche la crisi economica, individui e gruppi sociali sembrano muoversi alla ricerca di modalità alternative di vita. Gli studi sull’economia civile e sulla felicità, le analisi sui beni comuni, le critiche alla crescita del Pil come unica misura del benessere hanno mostrato in questi anni la diffusione di comportamenti alternativi di consumo e di esistenza caratterizzati dalla sostituzione del noi all’io, della condivisione alla frammentazione. Accanto a iniziative tese a promuovere modelli economici fondati sulla comunità e sul rilancio dei legami sociali (dai gruppi di acquisto e distretti di economia solidale alle economie di comunione e finanza etica), più recentemente si registrano aspirazioni alla condivisione anche nelle pratiche abitative: gruppi sociali innovativi risultano infatti intenzionati a promuovere nuove modalità dell’abitare. Tale richiesta è generata da diverse cause tra cui speculazione edilizia, insicurezza e precarietà delle condizioni lavorative ma anche dal crescente interesse per sostenibilità economica, ambientale e sociale da un lato, socialità e partecipazione dall’altro. Occorre poi ricordare che fattori di ordine socio-demografico quali l’invecchiamento della popolazione, i mutamenti della famiglia insieme alla crisi delle tradizionali reti di solidarietà rendono l’accesso alla casa molto più incerto oggi che in passato.

Tra le diverse sperimentazioni che si sono andate diffondendo si parla di cohousing come modalità ispirata da fattori etici, ecologici e solidali che prevede l’autorganizzazione degli utenti in tutte le fasi di ideazione, progettazione e realizzazione dell’insediamento. Si tratta di una forma di co-residenza nella quale vengono realizzati alloggi privati e servizi in comune dalla cui condivisione derivano risparmi economici e vantaggi in termini relazionali: la privacy dei nuclei famigliari è salvaguardata ma, allo stesso tempo, si intende sviluppare la socialità tra gli abitanti.

Il cohousing, presente da tempo in diversi contesti nei quali è cresciuta l’attenzione per l’abitare condiviso, rappresenta un modello che, inizialmente realizzatosi nel Nord Europa (verso la metà degli anni Sessanta), si è poi diffuso nei principali paesi occidentali tra gli anni Settanta e gli inizi del 2000. Ad interessarsi al cohousing è soprattutto la classe media, composta da persone accomunate da elevati livelli educativi ma redditi medio-bassi dovuti all’incertezza della situazione occupazionale. Può trattarsi anche di persone che registrano di giorno in giorno criticità per quanto riguarda l’accessibilità all’immobile soprattutto nelle grandi città, di nuclei famigliari che vivono difficoltà di fronte alle tensioni del mercato immobiliare, di giovani in cerca di indipendenza abitativa o mobili professionalmente, di anziani soli e/o di emarginati a rischio di esclusione sociale.

Generalmente l’interesse ha a che fare con il bisogno di riappropriarsi dei contesti di vita in un’ottica di valorizzazione del vicinato, di attenzione alla sostenibilità, di maggiore protagonismo diretto degli abitanti. Tra le ragioni principali che portano le persone a diventare cohousers spicca il bisogno comune di conoscere e fare esperienza con il prossimo. In effetti, se nelle grandi città risulta piuttosto complesso creare relazioni amichevoli con i vicini, i cohousers sembrano mossi dalla volontà di valorizzare fiducia, socialità, valore d’uso rispetto al possesso. L’obiettivo è quello di sviluppare, dal basso, intense pratiche di interazione e scambio sociale come il mutuo aiuto o altre attività di condivisione.

Gli effetti innescati da un tale modello sembrano più che virtuosi: in un momento in cui si sperimentano condizioni di solitudine, non avendo vicini su cui contare o parenti che vivano nelle vicinanze, il cohousing rappresenta uno strumento prezioso per lo sviluppo di importanti legami di solidarietà tra gli individui. Le ricerche indicano che si tratta di cittadini riflessivi, impegnati nella promozione del cambiamento, disposti ad assumere decisioni e responsabilità in prima persona e che manifestano una certa capacità di equilibrio tra impegno diretto e auto-realizzazione nella vita pubblica e privata. È bene specificare come il cohousing non abbia nulla a che vedere con altri modelli di vita in comune. Chi desidera realizzare questo tipo di co-residenza non pare mostrare alcuna velleità o nostalgia per il passato né intende rinunciare alle proprie esigenze di autonomia individuale: è piuttosto qualcuno che desidera costruire legami sociali utili e benefici per la convivenza.

Tra le conseguenze più significative della diffusione del modello, va ricordata la sua rilevanza in quanto dispositivo di welfare "informale". Prevedendo modalità di co-residenza tra adulti, bambini e anziani, il cohousing tende a incoraggiare lo sviluppo di forme trasversali di supporto, se non di vera e propria cura, dando vita a preziosi processi assistenziali intergenerazionali. Gli studi condotti sia in ambito internazionale che nazionale mostrano come gli utenti più interessati a realizzare tale forma di co-residenza siano gli adulti, in particolare le donne anziane: in effetti questi soggetti mostrano una certa preoccupazione per l’invecchiamento e i possibili effetti che tale processo può comportare sia dal punto di vista della sfera socio-relazionale che da quello dei bisogni di cura.

Si tratta di uno degli aspetti che dovrebbe rappresentare un forte stimolo per le amministrazioni pubbliche. In un’epoca in cui il welfare appare in grave sofferenza, il cohousing può rivelarsi uno strumento alternativo di politica sociale. Attraverso lo sviluppo di pratiche di mutuo-aiuto reciproco, con gli anziani impegnati a dedicare tempo all’accudimento dei bambini delle giovani coppie e i giovani/adulti altrettanto capaci di supportare i soggetti più deboli, la co-residenza presuppone scambi di reciprocità tra le diverse generazioni anche di fronte ad eventi più o meno casuali della vita quotidiana come separazioni, malattie, lutti ecc.

In definitiva il cohousing potrebbe rappresentare un valore aggiunto sia per i singoli che per le amministrazioni pubbliche. Per quanto riguarda i primi la possibilità di stringere relazioni sociali basate su partecipazione, socialità e fiducia, rafforzerebbe il capitale sociale presente nei territori. Gli attori istituzionali potrebbero mostrare maggiore lungimiranza e coraggio nel recupero degli spazi pubblici incentivando la sperimentazione delle pratiche di co-residenza: si tratta di capire che il modello può servire a costruire un nuovo scenario civico nel quale si diffondano sostenibilità, coesione ed integrazione sociale.