Nell’anno accademico italiano, a seconda dei corsi è possibile dare un esame dalle sei alle dodici volte in ciascun anno, per quanti anni si vuole. Questo non è lo standard nelle università del mondo; anzi. In molti Paesi gli esami si danno tutti alla fine dell’anno o del semestre: chi non li passa avrà ancora una chance l’anno successivo, e poi sarà espulso. Altro che rimediare dopo due settimane, oppure un mese, o tre mesi, o all’infinito, come da noi.

Perché questa straordinaria libertà di “provare” un esame? La prima causa è che da quando i professori universitari sono sotto accusa per qualsiasi cosa facciano, hanno talmente paura di essere condannati per il loro operato che ci vuole coraggio per dire di no agli studenti. Se gli studenti meno studiosi e più rumorosi chiedono la comodità di moltiplicare gli appelli, poiché i professori coraggiosi sono in minoranza, per non vedersi disapprovare li si accontenta. Fare meno appelli non significherebbe lavorare meno: il numero di esami resta lo stesso; ma dire “facciamo meno appelli” si presterebbe troppo ad avviare il solito linciaggio verbale dei docenti (di bocca in bocca, oppure amplificato dalla stampa cui fa gioco), quindi si preferisce evitare. Il che, come vedremo, va a danno proprio degli studenti.

La seconda causa è l’aria che tira nel Paese, e che determina le norme di funzionamento emanate dal ministero a carico delle università: un’università deve produrre laureati. Più laureati produce, e a minor costo, meglio è. Come un’azienda che produce mattoni forati. I dipartimenti universitari vengono premiati (in denaro) se laureano in fretta molti dei loro iscritti, e puniti (in non-denaro) se ne laureano di meno o meno in fretta. Questo l’atteggiamento degli ultimi governi. Chiunque capisce che così si incoraggia a laureare senza pretendere vere competenze. E così si cerca di rovinare un Paese. In particolare per quanto riguarda la frequenza degli appelli, il ragionamento che rimbalza tra studenti svogliati con la mentalità da mattone forato è questo: “se Pierino non ha passato l’esame, prima gli concediamo una nuova occasione per riprovare, meglio è; più appelli gli diamo, più è probabile che riesca a superare l’esame”.

Questo ragionamento è bacato alla radice, perché parte dal momento in cui Pierino non ha superato l’esame. Certo, una volta che Pierino non ha studiato e si è fatto bocciare, occorre presto un altro appello. Ma perché Pierino non ha studiato? E come si doveva fare perché studiasse? La risposta è semplice: Pierino doveva sapere che quell’appello era importante e decisivo. Sapendo che non lo era, non si è preparato a dovere. Sapere che fallendo un esame si avrà continuamente l’occasione di riprovarci, porta gli studenti più svogliati e quelli senza un buon metodo di studio a preparare gli esami malissimo, sperando di passarli più o meno per caso; tanto possono sempre riaffidarsi alla sorte dopo quindici giorni. Questo non migliora l’efficienza dell’università, perché, invece di dargli un metodo, agli studenti è suggerito di trascinarsi da un tentativo velleitario all’altro. Col risultato di imparare di meno, e laurearsi più tardi.

C’è una controprova che la proliferazione degli appelli viene da una mentalità poco familiare con lo studio, cioè dall’alleanza fra gli uffici del ministero e le frange meno capaci degli studenti: la richiesta di molti appelli è sempre accompagnata dalla pretesa che questi siano spaziati nell’arco di un paio di settimane, una pretesa che i dipartimenti corrivi girano sotto forma di arcigna prescrizione ai singoli docenti.

Ma chi ha un metodo di studio efficace prepara quattro o cinque esami lungo tutto il semestre, e alla fine può darli anche tutti in pochi giorni (come avviene in molti Paesi). Quando sai le cose, non hai bisogno di prenderti tempo fra un esame e l’altro. Se voi doveste rispondere a domande sulla composizione della vostra famiglia e sulla disposizione dei mobili in casa vostra, chiedereste che fra tali prove intercorrano due settimane?

I diversi appelli erano nati per consentire di scegliere fra più date diverse e così evitare coincidenze di data e orario; quindi bastava che le date fossero più di una, non importa spaziate di quanto. Allora a che cosa servono oggi le due settimane fra un appello e il successivo? Ma è chiaro: a preparare l’esame. Diversi studenti ragionano così: “io durante il semestre non faccio niente; quando mancano quindici giorni comincio a preparare il primo esame; se mi va bene, poi preparo il secondo, altrimenti di nuovo il primo: quindi mi occorrono 15 giorni fra il primo e il secondo appello.” E così via per gli esami successivi.

Molti (rappresentanti degli) studenti sostengono con fervore che è impossibile preparare più esami nello stesso periodo di tempo, ad esempio un semestre, e poi darli in rapida sequenza. L’unica cosa possibile sarebbe prepararli uno alla volta, perché la mente non può contenere più di un esame alla volta. Quindi si prepara un esame, lo si dà, poi lo si dimentica, e così, a mente sgombra, si può preparare il successivo. Mente sgombra dalla materia d’esame! Insomma, lo scopo dell’esame sarebbe poterne dimenticarne il contenuto; per passare a un altro esame, di cui dimenticare il contenuto. E così via. E questo fanno, molti studenti. Per loro, lo scopo dell’università è non trattenere alcuna nozione.

I professori gli devono spiegare che non è così. Cominciando dal ridurre il numero degli appelli, e i giorni che li separano. E recuperando per l’insegnamento settimane preziose che oggi sono immobilizzate dalle interminabili sessioni di esami (anche più di quattro mesi all’anno, contro le due - quattro settimane delle università giapponesi).

A partire dalla riforma Berlinguer l’università esprime il valore degli esami in Crediti formativi unitari (Cfu). Questi consentono di comparare gli esami sostenuti in sedi diverse, ad esempio all’estero durante l’Erasmus. Quindi sono uno strumento in sé benvenuto. Se non fosse che l’attuale clima intellettuale è stato capace di volgerlo in danno.

La mentalità aziendale-quantitativa conduce a esportare ovunque il paradigma del denaro; mentre lo scopo dell’università deve assolutamente essere il guadagno di conoscenze. Ebbene, i Cfu sono diventati l’unità di misura del sapere contenuto nel curriculum di studi. Uno studente di triennio per laurearsi deve acquisire 180 Cfu. Altri 120 Cfu per il biennio magistrale. Prima che le materie di studio venissero “misurate” così, si sapeva che alcuni esami erano più duri di altri, ma era viva la consapevolezza che lo erano perché consistevano di una maggiore quantità di sapere; ed era chiaro che la ragione per cui si investivano tempo e denaro nell’università era acquisire più sapere possibile. Al sapere era riconosciuto il ruolo di fine ultimo dello studio, e l’idea di fondo era che più cose uno imparava, meglio era per lui.

Oggi, agli studenti viene proposto un concetto diverso. Quello che devono ottenere sono 180 Cfu. Per ottenerli, devono studiare un certo numero di programmi d’esame. Quindi, imparare è la condizione per avere il corrispondente gruzzoletto di Cfu. Non si studia per sapere, ma per “comprare”, attraverso il sapere, i Cfu. Quindi, tipicamente, fra due esami che danno gli stessi Cfu, conviene scegliere quello in cui si imparano meno cose, perché così i Cfu sono “presi meglio”; cioè, “pagati” di meno. In altre parole, il sapere è il prezzo da pagare per ottenere i Cfu .

La corsa agli esami meno impegnativi è vecchia come lo studio; ma si accompagnava alla percezione acuta e del resto veritiera di perdere qualcosa. L’intero sistema ti ricordava che più cose imparavi, meglio era per te. Oggi, la metafora “monetaria” dei Cfu in cambio del sapere spinge gli studenti a considerare il sapere come mero denaro per procurarsi i Cfu. Quando si compra una lavatrice, a parità di prodotto l’ideale è essere costretti a spendere meno denaro possibile. Ebbene, all’università è lo stesso: a parità di Cfu, l’ideale è essere costretti ad acquisire meno sapere possibile. Lo scopo dell’università è riuscire a imparare il meno possibile.

Bisogna che i professori, fra le mille cose in gran parte né scientifiche né didattiche che gli chiediamo di fare, facciano anche questa, che invece è proprio didattica: devono spiegare agli studenti che i Cfu sono per il sapere e non viceversa; perché la cultura e il sapere, non i Cfu, sono una ricchezza inestimabile.