La situazione drammatica in cui ci troviamo impone di ripensare analisi e posizioni. Gli attacchi terroristici hanno fatto più vittime nei Paesi musulmani che in Europa. Il peso di gran parte dei rifugiati è portato da aree dell’Africa e del Medioriente. Tuttavia, gli europei sono interessati soprattutto all’impatto sui propri territori. E i risultati elettorali, anche in Paesi tradizionalmente ospitali, lo dimostrano.

Chi esagera con atteggiamenti garantisti ignora non solo gli umori degli elettori, ma le necessità reali. Nei flussi irregolari transitano davvero terroristi, il prelievo delle impronte e la foto-segnalazione all’arrivo non possono costituire un optional: il problema degli hot spot, come per altre misure di livello europeo, è semmai che non funzionano. Gli aiuti economici dell’Unione ai Paesi di frontiera sono ancora tragicamente scarsi. E la cooperazione successiva, la relocation del carico dei rifugiati tra Stati membri, non va meglio, come ha dimostrato Francesco Maiani. In base alle decisioni del Consiglio Ue del settembre 2015, in due anni si sarebbero dovute trasferire 39.500 persone dall’Italia e 66.400 dalla Grecia: ad oggi se ne è collocato un migliaio. Nel 2015 sono arrivate 800.000 persone in Grecia, Paese che già dal 2011 era stato escluso per inadeguatezza dagli Stati in cui si potevano rimandare rifugiati: e ci si meraviglia che lì gli hot spot non funzionino?

Il futuro dei Paesi europei di frontiera è assai problematico. Il numero dei migranti giunti in Europa nei primi due mesi del 2016 è aumentato di 30 volte rispetto allo stesso periodo del 2015; lo ha dichiarato il direttore di Frontex, in occasione della visita ad Ankara per l’Accordo UE-Turchia siglato il 18 marzo. L’intesa prevede che siano rimandati in Turchia tutti gli immigrati irregolari e che ci sia un cambio alla pari tra siriani sbarcati e rifugiati siriani da prelevare in Turchia e trasferire in Europa fino a 72.000 persone. Lo scopo «nobile» consiste nello scoraggiare trafficanti e pericolose traversate, ma si mira soprattutto ad alleggerire i flussi verso le coste greche e questo si è ottenuto: gli arrivi in Grecia sono crollati.

L’accordo con la Turchia è però oggetto di critiche pesantissime. Nel giudicarlo a mia volta, tralascio alcuni aspetti fondamentali: il possibile dirottamento dei flussi, con un rinnovato impatto sulle coste italiane che hanno già subito un incremento degli arrivi dall’Africa; la dimensione giuridica, il fatto cioè che l’accordo possa essere impugnato dalle Corti europee (Per quest’ultimo aspetto e per una critica generale rimando a Emanuela Roman). Vorrei considerare invece altri aspetti: l’impraticabilità delle alternative virtuose e le difficoltà politiche di applicazione dell’accordo, la generale necessità di una ridefinizione del concetto di «Paese sicuro», cioè capace di dare protezione internazionale.

Il Cir, l’Unhcr, molte organizzazioni umanitarie chiedono resettlement: il trasferimento di rifugiati direttamente in Europa per evitare loro viaggi ad alto rischio. Purtroppo questa strategia si è dimostrata tremendamente insufficiente. Il Consiglio Ue del luglio 2015 ha imposto il reinsediamento in Europa di soli 22.504 profughi. D’altronde, l’accordo UE-Turchia prevede soltanto 72.000 siriani da collocare in Europa e ci sono seri dubbi che i governi europei li accettino. D’altra parte, il presupposto dell’Accordo è l’idoneità della Turchia a essere considerata un Paese sicuro. Lo è? In Turchia il 12% dei Syrians under Temporary Protection (SuTPs) è accolto in campi che sono giudicati un «emergency response of a consistently high standard» (Unhcr, 2015). Due rapporti della World Bank (7402, agosto 2015; 102184, dicembre 2015) hanno messo in evidenza i progressi legislativi compiuti dalla Turchia sui SuTPs, in particolare con la legge dell’aprile 2014 che regola l’accesso alla salute e allo studio; dal gennaio 2016, anche l’accesso legale al lavoro è diventato operativo (quello irregolare era già notevole). A settembre 2015 lo sforzo economico dal governo turco per l’accoglienza dei SuTPs, in particolare fuori dai campi, era arrivato a 7,6 miliardi di dollari. Permangono certo situazioni di indigenza estrema, ma si può sperare che i sei miliardi della Ue (in due tranche di tre miliardi ciascuna), previsti dall’accordo, servano ad alleviarle.

Il regime turco peraltro è sempre più autoritario e illiberale. Questo dovrebbe precludere la riapertura del processo di adesione all’Ue, ma, rispetto alla protezione dei rifugiati, la natura autoritaria di un regime è un carattere ostativo? Pongo un quesito generale, che riguarda altre situazioni, in atto e in prospettiva. Per rispondere dobbiamo chiederci «cosa dobbiamo a chi».

L’asilo è stato pensato per accogliere individui o gruppi specificamente perseguitati, e queste persone, che hanno titolo allo status di rifugiato, dovrebbero essere inserite nei confini di regimi liberali. Ma chi fugge da conflitti o disastri naturali ha bisogno di sicurezza fisica e servizi di base, che potrebbero essere garantiti anche da regimi autoritari. Quindi la definizione di «Paese sicuro» andrebbe calibrata in base al tipo di protezione internazionale necessaria. Il problema è che, dentro e fuori i confini europei, neanche sicurezza e servizi minimi sono garantiti: troppi campi africani sono un inferno, mentre all’interno della civile Europa vediamo profughi ammassati in condizioni di abbandono. E mentre la Turchia, secondo Amnesty International, sta respingendo siriani in zone di guerra, molti Stati europei chiudono le frontiere, perché purtroppo pure nelle nostre democrazie anche i diritti fondamentali sono condizionati dalle risorse disponibili e dalle opinioni del demos, le cui tendenze alla solidarietà sono precarie. Un bel puzzle per leader con propensioni umanitarie.