Il 14 gennaio scorso Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto unitariamente un documento intitolato Un moderno sistema di relazioni industriali. Come sempre accade nelle relazioni industriali, i momenti formali non arrivano mai improvvisamente e sono sempre inseriti in una traiettoria politico-sindacale. Questo documento conferma la ritrovata unità sindacale, ma è vero anche che l’unità è stata perseguita anche nei tempi della contrattazione separata. Nel 2008 Cgil, Cisl e Uil predisposero un documento unitario per la riforma della struttura contrattuale con proposte riprese nel 2013 (in parte sancite nell’Accordo unitario del 2011), per poi sottoscrivere l’anno seguente accordi su contrattazione e rappresentanza. Quest’ultimo documento unitario non è quello della ritrovata unità.

In quest’occasione Cgil, Cisl e Uil hanno definito le linee di una comune politica sindacale. Sulla democrazia sindacale, una volta acquisito il coinvolgimento di tutti i lavoratori nelle fasi di rinnovo dei contratti, dichiarano l’obiettivo di voler «esercitare la rappresentanza e la tutela di tutte le forme contrattuali presenti nello stesso luogo di lavoro». Si tratta di una posizione contraria alla frammentazione del ciclo produttivo e del lavoro impiegato per ricomporre, sindacalmente e giuridicamente, tutta la catena produttiva del valore.

Più esplicita è anche la posizione sulla democrazia industriale, rompendo gli indugi sulla partecipazione sindacale alla governance dell’impresa, all’organizzazione del lavoro ed economica. Sull’assetto della contrattazione, vengono avanzate due proposte: attuare l’articolo 39 della Costituzione (per dare efficacia generale ai contratti collettivi) da un lato; sperimentare forme di contrattazione ai livelli di sito produttivo, filiera o distretto (per sostenere la ricomposizione delle catene del valore) dall’altro.

Ciò detto, c’è un punto sul quale meditare bene, da cui discendono tutte le questioni di relazioni industriali e di politica economia: la questione salariale. Cgil, Cisl e Uil ritengono che «il processo ridistributivo della ricchezza prodotta deve intervenire a tutti i livelli della contrattazione»; perciò, «il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto», tenendo conto delle «dinamiche macroeconomiche» e degli «indicatori di crescita e degli andamenti settoriali».

Inoltre, «l’esigibilità universale dei minimi salariali» deve essere soddisfatta dai contratti nazionali dotati di efficacia generale, «in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale». Quindi il salario minimo deve coincidere con quello previsto dai contratti nazionali, preservando la funzione di autorità salariale della contrattazione; la dinamica salariale deve basarsi non solo sulla produttività aziendale ma anche su quella nazionale di settore.

È evidente la distanza rispetto alle richieste di Confindustria. Secondo le imprese industriali metalmeccaniche, al contratto nazionale deve competere esclusivamente la determinazione del minimo senza alcuna funzione redistributiva della produttività settoriale, anzi depurando il salario minimo di diverse voci retributive previste dai contratti nazionali. La dinamica salariale minima nazionale dovrebbe adeguarsi soltanto all’andamento dell’inflazione (peraltro depurata di alcune voci del paniere).

Si tratta di posizioni antitetiche che non lasciano ipotizzare alcuna mediazione: o se ne accetta l’una o se ne accetta l’altra. Con quale risultato? Se pensiamo alla storia della politica contrattuale sui salari in Italia, la prima regola contrattuale risale alla scala mobile. A partire dai primi anni Ottanta, le regole contrattuali hanno sostanzialmente risposto alle esigenze di politica economica, orientate dalla necessità di combattere l’inflazione seguendo la dottrina secondo cui occorreva contenere la dinamica salariale.

Da quando questa esigenza ha perso vigore, la contrattazione collettiva sul salario – di fatto – non ha più regole efficaci, o quantomeno funzionali. Infatti, ininfluente è la regola posta nel 2009 sull’adozione dell’indice Ipca per gli adeguamenti salariali e, soprattutto, oggi c’è un’altra dottrina politica economica cui si pretende di conformare la politica salariale. Essa prevede un salario minimo generale (comunque più basso degli attuali minimi contrattuali globali) protetto dall’inflazione, e aggancia la dinamica esclusivamente alla produttività aziendale. È la dottrina delle principali istituzioni internazionali, degli industriali, ancorché sottintesa è la dottrina del governo.

Dunque, da questo documento unitario che cosa si può ipotizzare? O le nuove relazioni industriali si doteranno di regole coerenti con questa dottrina oppure non ci sarà alcuna regola; o meglio, ci sarà la regola primaria dei rapporti contrattuali, che sono rapporti di forza. Il che porterebbe anche a credere che, proprio per affrontare duri rapporti di forza, il sindacato confederale abbia deciso di serrare unitariamente i ranghi.