Preceduto da un crescendo di polemiche fra tradizionalisti e innovatori, è andato in onda su Rai2 il reality “Monte Bianco. Sfida verticale”. Un gioco a squadre, anzi a coppie, che attraverso il superamento di prove consentirà alla squadra vincitrice di salire sulla vetta del Bianco (m. 4810). Le prime due puntate trasmesse permettono qualche considerazione su come il mezzo televisivo elabora, costruisce e veicola un’immagine dell’alta montagna.

Ma prima dei commenti vediamo come è strutturato il reality. Le coppie sono formate da una guida alpina professionista e un/una “famoso/a”: una modella brasiliana, un’attrice inglese naturalizzata italiana, una giovane cantante, un campione di karatè, un ex calciatore ora allenatore, un comico e infine un giornalista. Apparentemente digiuni di ogni nozione alpinistica, i concorrenti devono tutti impegnarsi su una via ferrata, in una calata a corda doppia, nella scalata di placche di granito, nello scendere il corso di un torrente di montagna imbracati e monitorati dalla loro guida personale, oltre a misurarsi in sfide che mettono in competizione diretta una squadra contro l’altra. Fra una prova e l’altra i concorrenti e i loro accompagnatori/trici vivono in tende montate in Val Ferret, condividendo gli spazi e i tempi di una vita temporaneamente comune. La direzione e l’organizzazione sono nelle mani di una presentatrice di mestiere e di Simone Moro, alpinista e guida alpina di notevole esperienza sulle montagne delle Alpi e dell'Himalaya.

Non credo ci sia bisogno di scomodare le riflessioni di Pier Paolo Pasolini e di Karl Popper per constatare il livello di spettacolarizzazione, che, nel nostro caso, è accentuato dal montaggio delle immagini, dalle voci di commento e dalle musiche di sottofondo. Ma uno show è uno show, e “Monte Bianco. Sfida verticale” non è un documentario naturalistico della BBC. Certo, nessuno vuole condividere la visione austera dei pionieri ottocenteschi dell’alpinismo, ma ci si chiede se le periodiche inquadrature del fondoschiena della concorrente che si lava nelle acque del torrente presso il “campo base” siano funzionali alla narrazione.

Altre, e più fondate, sono le perplessità che emergono dalla visione delle prime due puntate. In primo luogo il concetto di velocità che si esprime nei premi, ovvero nelle penalità che favoriscono o fanno retrocedere le squadre nella loro competizione. Beninteso, esistono da tempo vere e proprie gare d’arrampicata, che impegnano però non dilettanti allo sbaraglio, ma donne e uomini allenati e preparati. Dunque scendere in doppia a gran velocità o correre a quattro zampe su placche di roccia inciampando sui rinvii non è il massimo per comunicare al grande pubblico un corretto approccio alla montagna. Proprio perché l’elogio della velocità è spesso conflittuale con l’esercizio della prudenza: l’osservazione attenta del percorso, le manovre di corda, la preparazione delle soste esigono un impiego oculato del tempo.

Come si diceva, fra esperti e conoscitori dell’alpinismo si sono levate voci critiche, talora anche molto negative, nei confronti di questo reality. Merita però segnalare un punto a favore: la presenza fisica continuativa e la parola presa dal professionista alla testa della cordata. Le espressioni che ricorrono prima o durante una scalata (“dosare le energie”; “la montagna non è un gioco”; “seguire le regole della guida” ecc.) mostrano che la guida, anche in un contesto spettacolare, non abdica di fronte al suo ruolo, quando una vita, anzi due vite, sono in gioco. Da questo punto di vista si può forse osservare che le prospettive degli attori in gioco non coincidono: gli alpinisti di mestiere difendono una linea di professionalità che non è solo tecnica, che non resta asettica ma che è in grado di comunicare al dilettante famoso la passione autentica per l’arrampicata e per la montagna (si veda la salita di Stefano con Anna Torretta sull’Aiguille Croux).

Le esigenze della produzione si muovono invece su una linea diversa, quella dell’“estremo spettacolare” che coniuga – come ha scritto Luca Calzolari (Un nuovo storytelling per la montagna?, in “Montagne 360”, settembre 2015) -  “divertimentificio” e “immaginario dell’estremo”. Di fronte a questo non si può condividere la proposta popperiana di rilasciare una patente a chi produce o dirige programmi televisivi, ma occorre certo essere consapevoli del fatto che “difficilmente la materia sensazionale è anche buona” (K.R. Popper e J. Condry, Cattiva maestra televisione, Milano, Reset, 1994, p. 14). Nel nostro caso, fra gli alpinisti autentici e i produttori del reality hanno prevalso i secondi, ma ci si augura che gli spettatori invogliati alla frequenza della montagna dalla visione di “Monte Bianco. Una sfida verticale” seguano il modello dei primi e si leghino in cordata rispettando le regole della prudenza e della sicurezza.