Nei giorni scorsi la Commissione europea ha presentato i suoi Progress Report annuali sulla situazione nei Paesi coinvolti nella politica d’allargamento – Balcani occidentali e Turchia. Un esercizio rinnovato, nelle intenzioni della Commissione, per abbandonare il gergo burocratico e farne uno strumento trasparente di comparazione degli sviluppi nei diversi Paesi, utile alle società civili per chiedere conto ai propri governi. I rapporti escono con qualche settimana di ritardo rispetto al previsto. Un ritardo dovuto agli sviluppi della crisi dei profughi, secondo Bruxelles (l’ultimo vertice tra i capi di governo della regione e la Commissione si è tenuto solo lo scorso 25 ottobre) ma potrebbe anche avere a che fare con la nuova tornata elettorale del 1° novembre in Turchia. La Commissione avrebbe preferito aspettare, prima di dare le sue valutazioni sugli sviluppi politici in Turchia: un regalo ad Erdoğan secondo alcuni, una mossa di autodifesa per evitare di essere risucchiati nelle polemiche politiche turche per gli altri.

E, in effetti, la relazione della Commissione sulla Turchia non è leggera, e non ha mancato di sollevare le proteste del nuovo governo Akp. Bruxelles da una parte rimarca «l’aiuto umanitario senza precedenti» offerto dalla Turchia ai profughi siriani e iracheni; dall’altra, sottolinea «il generale trend negativo» per ciò che riguarda il rispetto dello stato di diritto e dei diritti fondamentali nel Paese, incluse le libertà d’espressione e d’assemblea, a causa di nuove leggi che «vanno contro gli standard europei». Si segnala, in particolare, il «serio deterioramento» della libertà di stampa negli ultimi due anni, e l’indebolimento del principio di separazione dei poteri con le crescenti interferenze politiche sulla magistratura e il coinvolgimento diretto del Presidente Erdoğan negli affari politici quotidiani, «oltrepassando le prerogative costituzionali». Per l’Ue inoltre «è imperativo che riprendano i colloqui di pace» con i curdi.

Il Paese della regione più avanzato nei negoziati d’adesione è il piccolo Montenegro, che solo nell’ultimo anno ha aperto otto nuovi capitoli negoziali, e in cui la Commissione registra un buon progresso per ciò che riguarda lo stato di diritto. Restano aperte nel Paese le questioni della legislazione elettorale e della lotta alla corruzione, fulcro delle proteste di piazza dello scorso settembre/ottobre. L’esecutivo Ue chiede che venga indagato ogni atto di violenza e uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine, che terminino gli attacchi mirati agli attivisti della società civile attraverso i media e gli attacchi alla libertà di stampa e di informazione. La limitata capacità delle istituzioni montenegrine – in un Paese di soli 600.000 abitanti – resta una sfida sostanziale per l’integrazione europea del Paese adriatico.

Per quanto riguarda la Serbia, la Commissione loda l’operato delle autorità di Belgrado nel far fronte alla crisi dei rifugiati che ha attraversato la regione a partire dalla scorsa primavera, così come nella continuazione del dialogo per la normalizzazione delle relazioni con il Kosovo. Uno dei punti critici concerne la libertà d’espressione, anche per via della mancanza di trasparenza su proprietà e finanziamento dei media. Ugualmente, la Commissione sottolinea la necessità che la Serbia riduca le restrizioni agli scambi commerciali e si allinei progressivamente alle posizioni UE in politica estera – un riferimento alla questione delle sanzioni alla Russia durante il conflitto in Ucraina. L’analisi della compatibilità della legislazione serba con quella Ue è stata conclusa nel marzo 2015, e la Commissione raccomanda ora che l’Ue avvii i negoziati con Belgrado sui primi capitoli d’adesione (quelli relativi a giustizia e magistratura) per l’inizio del 2016.

Notizie positive anche dall’Albania. Tirana dimostra «costanti progressi» sui criteri politici, secondo Bruxelles, che tuttavia condiziona ancora l’apertura dei negoziati d’adesione del Paese alla riforma della giustizia – cosa per la quale sarà necessario un consenso politico bi-partisan, ben difficile da ottenere nel polarizzato scenario politico albanese. La Commissione loda la tenuta delle elezioni locali di giugno e sprona l’Albania a procedere nella riforma della pubblica amministrazione e nella lotta alla corruzione e al crimine organizzato. Positivo, nella valutazione di Bruxelles, anche l’allineamento di Tirana sulle posizioni UE in politica estera, mentre resta necessario impegnarsi contro corruzione e criminalità.

Per quanto riguarda l’ex repubblica jugoslava di Macedonia, la Commissione continua a raccomandare al Consiglio l’apertura dei negoziati d’adesione – cosa che era stata messa a rischio dalla crisi politica della primavera – benché condizionata alla continua applicazione degli accordi politici di Pržino, con l’avvio di un governo di unità nazionale ed elezioni anticipate ad aprile 2016. Una crisi – «la più grave dal 2001», secondo la Commissione – che ha rischiato di intaccare anche i delicati equilibri etnici del Paese, allorquando sarebbe anzi necessario prevedere una revisione degli accordi di Ohrid. Il Consiglio Ue prevedibilmente non darà comunque seguito alla raccomandazione della Commissione per via del veto della Grecia, che ormai da sette anni impedisce a Skopje ogni avanzamento nel cammino europeo. Notizie positive, invece, per quanto riguarda l’economia: la Macedonia è a un «buon livello» di preparazione nello sviluppo di una economia di mercato funzionante.

Laddove la Commissione registra passi avanti, quest’anno, è la Bosnia Erzegovina, che è «di nuovo sul cammino delle riforme» secondo Bruxelles. Sarajevo ha ottenuto l’entrata in vigore del proprio Accordo di stabilizzazione e associazione (Asa), firmato nel lontano 2008, in cambio dell’impegno ad affrontare i gravi problemi socio-economici che affliggono il Paese attraverso una «Agenda di Riforme», a partire dalla disoccupazione giovanile. Resta sullo sfondo, per ora, la questione della riforma della Costituzione di Dayton, anche per ciò che riguarda i diritti elettorali delle minoranze: a vent’anni dalla firma dei trattati di pace, essa si è dimostrata impervia ad ogni tentativo di modifica per mancanza di consenso di tutti gli attori politici coinvolti. La Commissione sottolinea anche la necessità di procedere alla riforma del sistema giudiziario in base a quanto emerso nel Dialogo Strutturato sulla Giustizia.

Qualche passo avanti, infine, si registra anche in Kosovo. La Commissione ha da poco dato luce verde alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione anche con l’ultimo dei Paesi dell’area ad esserne ancora sprovvisto. L’accordo fa da base per ogni futura relazione formale tra Pristina e Bruxelles, e fa seguito della firma degli accordi di normalizzazione delle relazioni con Belgrado; il dialogo tra i due governi dovrà proseguire e le autorità kosovare dovranno dare prova di «paziente pragmatismo» secondo Bruxelles. Ciò si vedrà anche per quanto riguarda l’attuazione dell’accordo sull’associazione/comunità delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo – appena sospeso dalla Corte costituzionale kosovara. La Commissione rimarca comunque la debolezza delle istituzioni kosovare e la necessità di limitare le influenze politiche e combattere corruzione e criminalità.

 

[Questo articolo è pubblicato anche su Osservatorio Balcani e Caucaso]