“Il carcere è la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno”. Così Michel Foucault. Quarant’anni dopo, il bellissimo  volume di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta avanza la “ragionevole proposta” di Abolire il carcere e ne spiega, dettagliatamente, le ragioni.

Perché si deve osare? La risposta è nei fatti: gli autori affrontano l’interrogativo affidandosi a un’accurata diagnosisullo stato del sistema punitivo-carcerario, sulla sua efficacia, anche economica. In quest’ultimo secolo, nonostante voci autorevoli di protesta, riforme consistenti e il faro del dettato costituzionale, il carcere si è palesato in tutta la sua dannosità e ha prodotto risultati antitetici alla propria missione istituzionale. “Il carcere che funziona deve produrre libertà” sintetizza un grande magistrato di sorveglianza, Alessandro Margara. Il volume ci restituisce, invece, una spietata fotografia di un mondo che “ha l’esclusiva funzione di affliggere il condannato per il reato commesso. L’afflizione diventa la sostanza stessa dell’esecuzione della pena”. E le cifre sul tasso di recidiva firmano quella che gli autori chiamano “una bocciatura senza appello”. Oltretutto questa istituzione fallimentare costa circa tre miliardi di euro l’anno e solo il 2,5 per cento di questa spesa è destinato all’esecuzione penale esterna (il sistema di gestione della pena sul territorio, attraverso le misure alternative alla detenzione: semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale ecc.).

Ciò significa, banalmente, che si sceglie di investire sulla pena detentiva, e, dunque, il cambiamento di rotta verso l’esecuzione penale esterna (pur obbligato dalle nuove leggi post sentenza Torreggiani, la sentenza “pilota” che nel 2013 ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti e ha dato al nostro Paese un anno di tempo per riorganizzare il sistema dell’esecuzione penale in modo conforme alla normativa europea, pena l’esame di tutti i ricorsi pendenti) non è supportato adeguatamente. Pagina dopo pagina, gli autori smascherano con chiarezza il gioco perverso di un sedicente percorso rieducativo, realizzato in un ambiente lesivo dei diritti fondamentali dell’uomo, improntato all’esercizio di un potere assoluto che viene ricordato all’utenza ogni minuto che passa. Un potere che è l’unico strumento per organizzare la convivenza coatta.

Ho lavorato vent’anni all’interno degli istituti di pena e, purtroppo, confermo quanto viene descritto in questo piccolo ma prezioso libro. Anche quando si cerca di remare controcorrente, di restituire la dignità a quel mondo, l’afflittività istituzionale ha quasi sempre la meglio. Ci si chiede perché ancora oggi il carcere possa essere teatro di violenze inaudite, come quelle descritte. La risposta è semplice: l’istituzione totale contiene in sé la violenza, le sue regole ossessive e spesso insensate generano rancore non solo in chi abita in quelle mura, ma anche in chi lavora all’interno. Non è un caso se il Corpo di Polizia Penitenziaria è, tra le Forze dell’ordine, quello che conta il maggior numero di suicidi; una ragione di più per riformare, fino ad abolirlo, questo mondo così anomalo e incivile.

I lettori più spaventati dal titolo tranchant sappiano, dunque, che il carcere produce altra criminalità, non migliora il senso di insicurezza e paura da cui siamo afflitti. Saperli “dentro” non ci aiuta, dunque, a sentirci al sicuro. È anzi il contrario, come questo libro ci dimostra.

Se questa è la diagnosi, qual è la terapia? Che significa, esattamente, “abolire il carcere”? La qualità di questo libro è quella di presentare, con notevole competenza, un percorso preciso volto alla definitiva eliminazione della galera. Gli autori ci aiutano a riconoscere, nella storia del nostro Paese, i tentativi di costruire una prospettiva sanzionatoria diversa, che nasce dall’affermazione della centralità dell’uomo, della sua innata dignità, che deve diventare il centro di ogni intervento punitivo. Quella che Stefano Anastasia descrive come “un’altra idea della pena e della vita umana” rappresenta dunque il primo passo di questo percorso che ha già portato, ad esempio, all’abolizione della pena di morte. Il “prudente pragmatismo della ragionevolezza” o “il prudente realismo dell’utopia” secondo gli autori.

La strada per l’abolizione l’hanno tracciata i padri costituenti, quando hanno assaggiato la galera nella sua più dura espressione e ne sono usciti dicendo “mai più un carcere così”. Dalla loro esperienza, dalla loro fatica è nato il comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, che parla di finalità della pena (non solo carceraria, evidentemente). Un secolo di tentativi, a volte frenati da brusche retromarce, verso il raggiungimento della ragionevole utopia di applicare la Costituzione. Sicuramente una volontà riformatrice troppo timida, troppo rallentata rispetto alla costosa e inutile ingiustizia che si consuma quotidianamente nelle carceri. Un percorso carsico che non fa onore a un Paese civile e viene descritto nel libro insieme al dettagliato resoconto della tragica quotidianità carceraria.

È evidente che, per giungere all’abolizione del carcere bisogna riformare l’intero sistema sanzionatorio: in primo luogo, sostituire, laddove possibile, le sanzioni penali con quelle amministrative; poi prevedere un ventaglio di risposte punitive (molte delle quali già previste ma poco utilizzate) diverso dal carcere. L’Inghilterra, la Francia – solo per citare alcune esperienze europee – rappresentano spesso ottimi esempi. La pena scontata sul territorio non esclude dal contesto sociale, non mutila la dignità del condannato, è più efficace. Il carcere diventa, in questo modo, residuale. E siamo già a metà del guado, nel percorso verso l’abolizione.

Il libro disegna con precisione la realtà, supportando ogni analisi con dati inequivocabili. Non difende posizioni ideologiche, descrive solo la drammatica evidenza dei fatti. E suggerisce rimedi, propone alternative, dimostrandone, dati alla mano, l’efficacia. Attraverso questo racconto, la prospettiva di eliminare il carcere non dovrebbe suscitare, anche nel lettore non addetto ai lavori, alcun senso di smarrimento e di pericolo perché il volume mette in discussione in maniera molto convincente l’immagine rassicurante dell’istituzione carceraria.

C’è da chiedersi, allora, perché queste considerazioni non riescano a passare nella coscienza collettiva del nostro Paese e non si traducano in politiche di diversa esecuzione penale. Nonostante, voglio ripeterlo, l’Italia sia stata messa alla prova dalla Cedu e debba dimostrare la propria capacità di costruire un sistema diverso. Non ho una risposta, solo la sicurezza che libri come questo aiutano la cultura politica a diventare degna di un Paese civile, realizzando finalmente il pensiero di Altiero Spinelli: “Non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”.