Dopo il Bardo. L’attentato del Bardo ha generato in Europa uno slancio di solidarietà simile a quello dei primi mesi del 2011. È stato percepito, infatti, come una ferita a tutto ciò che del Paese l’Europa ama: la sua cultura antica, la sua ospitalità generosa, la sua vocazione cosmopolita. Con il rischio, come nel 2011, che la solidarietà si esaurisca non appena confrontata con la complessità e le contraddizioni di un Paese che sta cercando di costruire su basi nuove e condivise le sue istituzioni, la sua economia, la sua identità.

Il maggiore sforzo a tutt’oggi, e i maggiori successi, si sono dispiegati sul fronte istituzionale: Costituzione, elezioni, Parlamento e governo sono stati il frutto di procedure democratiche da manuale. Il funzionamento quotidiano dello Stato, e la sua legittimità, sono un’altra cosa. Non si è ancora spenta l’emozione per il Bardo ed ecco che cinque militari perdono la vita in un’imboscata tra Kasserine e Sidi Bouzid: il cuore del Paese, la culla della rivoluzione. La gente non si emoziona troppo a questi attentati «ordinari» che hanno già fatto molte decine di morti tra i militari e la Guardia nazionale, è ormai abituata. Ma negli ambienti del ceto medio riflessivo, tra insegnanti impegnati nel sociale e avvocati attivi nella difesa dei diritti umani, con posizioni anche opposte in merito al governo attuale o all’Islam politico, si manifesta la stessa convinzione: le bande armate in quelle regioni sono come pesci nell’acqua, godono del sostegno attivo o passivo di una parte non piccola della popolazione. Le cause non sono solo da ravvisarsi nella «delusione» di gente che, più che altrove, ha bisogno di pane oltre che di dignità, come vuole l’interpretazione corrente, ma anche nel fatto che in queste regioni invisibili ai media lo Stato si manifesta, più che altrove, con la stessa brutalità e arroganza del passato, si tratti di eseguire controlli o perquisizioni o, semplicemente, di implementare l’ordinaria amministrazione, per il semplice fatto che esso è ancora, in larga parte e inevitabilmente, lo Stato del passato.  Quello degli abusi sui sospetti e le loro famiglie, che diffida di ogni manifestazione di fede islamica, non importa se con radici religiose o politiche, abituato a rispondere al partito del dittatore anziché alla legge e all’etica del funzionario. Dopo la rivoluzione, mentre continuavano trattamenti illegali di detenuti, le generose quote del bilancio nazionale assegnate proprio alle regioni dell’interno spesso non venivano spese a causa del disimpegno delle strutture amministrative.

Il maggiore sforzo a tutt’oggi si sono dispiegati sul fronte istituzionale: Costituzione, elezioni, Parlamento e governo sono stati il frutto di procedure democratiche da manuale. Il funzionamento quotidiano dello Stato, e la sua legittimità, sono un’altra cosa

In quanto all’economia, appare ormai evidente che risanarla – malgrado segni di ripresa non indifferenti già l’anno dopo la rivoluzione – si rivelerà una fatica di Sisifo se non si riesce a bloccare da un lato la rincorsa salariale che imperversa da quattro anni nel settore pubblico alimentando l’inflazione, dall’altro la crescita esponenziale del settore informale che causa ingenti danni alle finanze statali e alle imprese regolari. Si tratta peraltro non di due conseguenze della rivoluzione – come vuole un’altra interpretazione corrente – ma di due lasciti del passato regime, il cui successo si basava sulla distribuzione di benefici corporativi a categorie più o meno influenti del ceto medio e su una gestione mafiosa dell’economia, con il commercio informale largamente in mano alla famiglia del presidente. Paradossalmente oggi, mentre l’organizzazione padronale Utica non si stanca di perorare misure che non siano solo di repressione ma di integrazione dei circuiti informali nell’economia legale, il sindacato Ugtt, protagonista della rivoluzione e del dialogo nazionale, continua ad appoggiare gli scioperi selvaggi del pubblico impiego. Il braccio di ferro degli insegnanti delle scuole superiori, che non hanno esitato a ricorrere al blocco degli scrutini mettendo a repentaglio l’anno scolastico, si è appena concluso con nutrite concessioni che hanno immediatamente fatto partire una nuova ondata di scioperi, stavolta tra il personale delle elementari e delle università. E in questi anni lo stesso potere di ricatto è stato esercitato con successo a tutti i livelli, dai netturbini ai magistrati.

Come avvenne già all’indomani delle lotte per l’indipendenza, la solidarietà nazionale si è frammentata presto. Ora, proprio perché la Tunisia è un paese scolarizzato e informatizzato, la formazione ideologica gioca un ruolo importantissimo

Invertire la tendenza appare impossibile senza la ricostruzione di un minimo di solidarietà sociale basata su valori e norme condivise e ciò chiama in causa l’identità nazionale. Emergono oggi tanto il solco scavato nella popolazione dall’impostazione unilaterale dell’illuminismo burghibista, che ha finito per marginalizzare alcuni ceti, specie popolari, e alcuni valori profondamente radicati nel Paese, quanto i guasti prodotti da vent’anni di dittatura durante i quali una generazione di adulti vissuti nel silenzio e nella complicità e i loro figli, nutriti di consumi ma digiuni di politica, si sono abituati alla coercizione e non all’interiorizzazione delle norme. Di conseguenza, e come avvenne già all’indomani delle lotte per l’indipendenza, la solidarietà nazionale che si è manifestata durante la rivoluzione si è frammentata l’indomani. Ora, proprio perché la Tunisia è un paese scolarizzato, mediatizzato e informatizzato, la formazione ideologica e gli apparati che la supportano giocano un ruolo importantissimo. Se i gruppi tradizionalmente portatori dell’egemonia culturale non riusciranno a integrare altre componenti sarà difficile costruire una qualche forma di identità condivisa e quindi di agire solidale collettivo.