Siamo al sesto anno della crisi economica e finanziaria più grave del dopoguerra; ma, ancora prima, aveva cominciato a circolare il termine «declino». Indubbiamente la nostra collocazione nelle varie classifiche internazionali scende drasticamente. Se sul Pil aggregato stiamo ancora tra le prime dieci economie, nelle classifiche sulla qualità della scuola siamo in coda ai Paesi Ocse. Non parliamo poi della capacità delle connessioni a banda larga: da noi internet viaggia alla velocità della Topolino amaranto evocata da Paolo Conte in una nota canzone. Potrebbe essere la volta buona per cominciare a riflettere su quanto questo declino dipenda da noi e non dalle dinamiche della globalizzazione. Certamente buona parte delle responsabilità è nostra, delle classi dirigenti soprattutto. Le polemiche sulla casta e la fortuna elettorale di varie forze politiche negli ultimi 25 anni segnalano questa presa di distanza dall’establishment. Ma, evidentemente, quelle che al loro nascere appaiono promettenti vie d’uscita, alla prova dei fatti falliscono, alimentando a loro volta nuove proteste anti-casta e nuove forze politiche che di questa protesta si fanno interpreti. Ma la polemica anti-casta di questi anni, oltre a risultare sterile, costituisce un problema in più perché suona come una generalizzata assoluzione degli italiani, ben disposti a rappresentarsi come vittime di una classe politica inadeguata, corrotta e rapace. Ma questa è solo una mezza verità.

Torniamo al problema della crisi di oggi. Certo i vincoli dell’Unione europea hanno reso più complicata l’attivazione di politiche in grado di ridurre gli effetti della crisi internazionale con investimenti pubblici, secondo la classica ricetta di Keynes; ma non possiamo dimenticare che i vincoli al nostro bilancio pubblico sono imposti, più che dall’Europa, da un debito pubblico di oltre 2 mila miliardi che solo noi italiani, in sovrana autonomia, abbiamo accumulato e di cui abbiamo beneficiato a danno delle future generazioni.