Per migliaia di musicisti aver studiato in un conservatorio italiano ha rappresentato un’opportunità di crescita cui essere grati a vita. In passato nelle loro classi hanno insegnato i pesi massimi della musica italiana – tre nomi su tutti: Benedetti Michelangeli, Petrassi, Rota – e i nostri migliori talenti facevano a gara per seguire le loro lezioni. Ma questo scenario sembra essere radicalmente mutato. Perché le grandi promesse musicali di oggi si trovano spesso costrette a studiare privatamente o all’estero? Che cos’è accaduto da quindici anni a questa parte, dopo la Riforma del 1999? E perché la fama dei conservatori non appare più così lucente a livello internazionale, mentre fino a una manciata di anni fa studiare nella patria della musica era un sogno condiviso da molti?

Sulla carta d’identità dei conservatori italiani si legge: Istituti di Alta Formazione atti a rilasciare diplomi accademici di primo e secondo livello, pari alle lauree triennale e magistrale. Dietro a questa apparente semplicità, le scuole vivono una situazione complicata da un punto di vista legislativo, didattico e organizzativo.

Per dare un’idea delle contraddizioni della riforma vigente, basti considerare che l’iter di studi per conseguire un diploma accademico sembra tagliato sulla misura degli studenti ordinari, penalizzando proprio i fuoriclasse. Se seguendo il vecchio ordinamento un ragazzo molto dotato poteva diplomarsi a qualsiasi età, adesso questa eccezione non è prevista e i ragazzi di valore sono costretti a rallentare la loro crescita musicale qualora intendano ottenere il titolo accademico. Abbiamo assistito a innumerevoli casi di enfant prodige diplomati a dodici o tredici anni, persino a undici. Senza arrivare a questi casi estremi, possiamo senz’altro affermare che la naturale aspettativa per un ragazzo di qualità era completare gli studi tra i sedici e i diciotto anni.

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Riproduciamo qui l'incipit dell'articolo di Valentina Lo Surdo, Conservatori del Duemila, pubblicato sul “Mulino” n. 4/14, pp. 567-575.