Che si parli della Costituzione europea o della crisi economica, che ci si interessi delle potenze mondiali emergenti o dei nuovi localismi – in breve, quando ci occupiamo della nostra identità di italiani, europei, occidentali – è immancabile trovare un riferimento alla comune eredità greca. Almeno questo, è opinione condivisa, non solleva troppi problemi, mentre intorno tutto sembra cambiare (troppo) rapidamente. Ma anche su questo piccolo punto le cose non sono così semplici. Certo, si può parlare di «eredità greca»: ma cosa significa «greco»? Quando si parla dell’eredità cristiana, o islamica o ebraica, il pensiero corre a un testo sacro capace di fondare una fede comune. Nel mondo greco manca qualcosa di analogo.
La Grecia che si studia a scuola, da Omero (VIII sec. a.C.) alla (presunta) chiusura della scuola filosofica di Atene per opera di Giustiano (529 d.C.), copre un arco temporale di circa 1.300 anni. Ma si dimentica troppo facilmente che per un altro millennio almeno la civiltà greca ha continuato a fiorire in quell’infinita decadenza dell’impero bizantino, fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453, quando numerosi dotti sono approdati sulle coste italiane pieni di manoscritti greci, dando vita al Rinascimento. E il riferimento all’impero bizantino, nient’altro che il proseguimento dell’impero romano, serve a complicare ulteriormente il problema, perché introduce un nuovo ospite, quel mondo latino che spesso è visto in simbiosi con il mondo greco, e a volte no. Quando si parla di eredità greca a che cosa si allude, allora?

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Riproduciamo qui l'incipit dell'articolo di Mauro Bonazzi, Eredità greche,  pubblicato sul “Mulino” n. 4/14, pp. 701-707.