Ultimamente gli studi umanistici sono al centro di un dibattito che rischia di avere esiti molto dannosi per il nostro sistema formativo. Il paradosso è che entrambe le soluzioni che sono state avanzate, pur nella loro antiteticità, avrebbero lo stesso effetto: ne determinerebbero la marginalità e di fatto la fine.

Da una parte, la proposta di Andrea Ichino (Riscoprire il talento per salvare la scuola, «Corriere della Sera», 21.10.2013), che indica la necessità strategica di sostituire alla cultura classica, ritenuta obsoleta, un incremento quantitativo di studi tecnicoscientifici; dall’altra, un appello per le scienze umane su questa stessa rivista (A. Asor Rosa, R. Esposito ed E. Galli della Loggia, Un appello per le scienze umane, «il Mulino», n. 6/2013, pp. 1076-1085) per una rivalutazione della cultura umanistica che sarebbe messa da parte dalla crescente tecnicizzazione. Due punti di vista che perpetuano un equivoco epistemologico, che disconosce l’umanesimo scientifico: un’unica cultura plurale, basata su un metodo analogo.

Entrambe le forme di sapere possono contribuire infatti a ridestare lo spirito critico in un mondo in cui la vera contrapposizione non è tra sapere scientifico e cultura umanistica, ma, come ricordava Giuseppe Cambiano, tra «saperi difficili, faticosi, e saperi facili, di superficie, saperi di formule» (G. Cambiano, Essere e divenire del classico, a cura di U. Cardinale, Utet, 2006). Questo è anche il punto di vista espresso da A. Massarenti (Una scuola per tornare a pensare, «La Domenica» de «Il Sole - 24 Ore», 2.2.2014) nell’adesione all’appello Ripartire dalla filosofia per ricostruire l’Italia, che auspica, attraverso gli strumenti critici della migliore filosofia, una riforma alla radice di quella particolare tradizione umanistica, che «per come essa si autodefinisce, si contrappone al sapere tecnologico e assai spesso, ahinoi, persino a quello scientifico».

Sgombrato il campo dagli equivoci, si tratta quindi di trovare la base di formazione del vero pepaideumenos (cfr. G. Cambiano, Vivere senza i filosofi antichi?, in Disegnare il futuro con intelligenza antica, a cura di L. Canfora e U. Cardinale, Il Mulino, 2012), cioè di «chi ha ricevuto un’educazione», non una semplice polymathia o una sola specializzazione, e che sa formulare giudizi corretti sui discorsi e sulle attività dello specialista, non meno di quest’ultimo. In passato tale risultato sembrava scaturire dallo studio liceale elogiato da Umberto Eco in una «Bustina di Minerva» che ricordava, tra l’altro, la curiosa modalità con cui Adriano Olivetti attuava la selezione del personale: «assumeva certamente bravi ingegneri, altrimenti i computer non li avrebbe mai costruiti, ma non aveva esitazione ad assumere un laureato che avesse fatto una tesi eccellente sui dialetti omerici» (U. Eco, «l’Espresso», 3.10.2013). Quello che sappiamo però è che il liceo classico gentiliano, buona palestra formativa per le classi dirigenti passate, ha oggi una presenza marginale nel nostro Paese, in via di ulteriore ridimensionamento (cfr. i dati ministeriali del 2011, forniti da C. Palumbo, Scommettere sugli studi classici nella società liquida, in Disegnare il futuro, cit.).

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Riproduciamo qui l'incipit dell'articolo di Ugo Cardinale, L'equivoco del neo-umanesimo, pubblicato sul “Mulino” n. 3/14, pp. 521-526.