Una delle principali conseguenze delle recenti elezioni europee è che il ruolo dell’Italia in Europa nei prossimi mesi sarà di fondamentale importanza. Forse storicamente decisivo. Esito niente affatto scontato; ancora pochi mesi fa del tutto imprevedibile.

Frutto non solo del calendario, con il prossimo semestre di presidenza. Ma soprattutto del voto: con il forte consenso al PD di Renzi e la generalizzata saggezza degli elettori mediterranei (che hanno respinto sirene estreme); il successo degli euroscettici: sensibile ma fortunatamente non decisivo, grazie anche alle loro divisioni per paese e lungo linee politiche; le forti convulsioni interne nel Regno Unito e in Francia (che indeboliscono in particolare quest’ultima); lo scarto fra la stabilità del voto tedesco e quello in quasi tutti gli altri Stati membri. All’attuale governo italiano il voto europeo consegna un evidente mandato: trovare entro fine anno il consenso intorno a una ragionevole modifica delle tetragone regole dell’austerità europea. Una modifica che possa accompagnare – almeno a partire dal 2015 – qualche prospettiva di ripresa dell’occupazione, e quindi di consenso popolare per l’Europa. Prima che sia troppo tardi. Facile dire: è impossibile, la Germania non accetterà mai. Ma altrettanto facile ritenere che così non si potranno che acuire i rischi “catastrofici” che l’Unione sta già correndo.

Allo stesso Paese che meno di tre anni fa era divenuto l’anello più debole della catena comunitaria, spetta oggi la riscoperta del suo ruolo di grande fondatore. Saprà esercitarlo? Speriamo di sì. Ma è  difficile prevederlo, visto che per ironia della sorte questo ruolo spetta ad un esecutivo con rilevanti tratti di originalità. Un governo con notevolissime capacità di marketing e di convinzione degli elettori, capace di ottenere una strabiliante fiducia politica; allo stesso tempo privo di una solida base programmatica, tecnicamente di grande modestia. Sostenuto da quello che è diventato un partito fondamentale all’interno della famiglia socialista europea, ma che allo stesso tempo sta conoscendo, apparentemente, una totale deriva leaderistica. Nel Pdr, come lo definisce argutamente Ilvo Diamanti, dovrebbe essere fortissimo il lavorio per fornire all’esecutivo strumenti, contenuti, proposte, alleanze, da spendere nella difficilissima trattativa europea; forse c’è, solo è difficile rendersene conto dal di fuori, nascosto dal rumore di un instancabile lavorio per riposizionare i singoli in nuovi assetti di potere forse destinati a durare a lungo. Allo stesso modo il governo Renzi sembra godere di un enorme sostegno nell’Italia che conta, da parte dei grandi mezzi di informazione; una situazione ottima “nelle retrovie” per dar forza al leader nelle battaglie continentali. Sostegno certamente ispirato – in molti – da una sincera fiducia nel nuovo leader e nel suo linguaggio (più che in propositi ancora bene da chiarire); ma venato, anche qui, da qualche evidente tentativo di accostarsi in posizione che conta al nuovo tavolo del potere, per trarne qualche vantaggio “in proprio”.

L’autunno ci racconterà dell’esito del derby Merkel-Renzi. Ma la partita è già in pieno svolgimento: il testo delle raccomandazioni del Consiglio formulate ieri dà la plastica dimensione dell’ottusità di Bruxelles a capire quel che sta succedendo in Europa; a comprendere che il voto del 24 maggio ha aperto una finestra di opportunità che si può richiudere con esiti tragici. E’ in corso la trattativa sul  nuovo Presidente della Commissione, che dovrà rappresentare una svolta netta rispetto al pessimo predecessore. Quali condizioni sta ponendo l’Italia per un consenso non solo ad un nome, ma ad un programma di lavoro per rafforzare e rilanciare l’unità europea?

La speranza di un’Europa più ragionevole e lungimirante è affidata in misura rilevante a questo giovane leader. Non sarebbe male che il suo partito, gli interessi economici, la stampa, gli intellettuali lo accompagnassero non solo con adulatori e non disinteressati peana, ma anche con l’esercizio di una forte e costruttiva critica: discutendone nel merito proposte e iniziative, rafforzandone il bagaglio politico, aiutandolo a giocare una partita difficilissima per la quale più che le abilità su twitter contano le virtù da statista.