Nel 1965, al Congresso mondiale degli organismi radio-televisivi che si tenne a Tokyo, la trasmissione della Rai Non è mai troppo tardi ricevette, su indicazione dell’Unesco, il premio dell’Onu come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo. Raro esempio di programma televisivo italiano conosciuto e citato a livello internazionale da studiosi di sociologia e pedagogia dei mass-media (Antony Bates, C.W. Bending, Henri Dieuzeide, tra gi altri), gli viene riconosciuto il merito di aver contribuito alla storia della televisione educativa. Non è mai troppo tardi era frutto di una convenzione tra ministero della Pubblica istruzione e Rai; un progetto complesso di educazione a distanza, articolato sulla messa in onda televisiva e su oltre 2.000 Pat (posti di ascolto televisivo) sparsi sul territorio nazionale, dove un insegnante seguiva insieme al gruppo di allievi la trasmissione e poi svolgeva con loro l’attività didattica di «tutoring», che consentiva di consolidare gli apprendimenti. Chi di loro voleva e si sentiva preparato, poteva poi affrontare l’esame per la licenza elementare. Mettendo in campo l’arma più innovativa, cioè la televisione, si intendeva così combattere una battaglia decisiva contro l’analfabetismo adulto, che riguardava circa il 10% della popolazione italiana alla metà degli anni Cinquanta, senza considerare i semianalfabeti.

La trasmissione Non è mai troppo tardi, iniziata il 15 novembre 1960, andava in onda in diretta alle ore 18 di ogni martedì, giovedì e venerdì; terminò nel 1968. I programmi di «Telescuola», di cui faceva parte, fino a quel momento erano basati su lezioni scolastiche tenute da insegnanti a una classe di studenti ospitata nello studio televisivo. Si trattava certamente di un uso del mezzo televisivo a livello molto basso rispetto alle sue effettive potenzialità, e dunque poco efficace rispetto agli obiettivi che si prefiggeva: rendere presente la scuola in quelle realtà dove la scuola non c’era o per quei soggetti che l’avevano precocemente abbandonata. Maria Grazia Puglisi, direttrice di Telescuola, era consapevole della necessità di operare un cambiamento tale per cui la televisione rappresentasse un autentico «valore aggiunto» sul piano del registro comunicativo e didattico. Il punto di partenza era trovare le figure di insegnanti in grado di impostare la didattica dal punto di vista del mezzo televisivo e non semplicemente di mettere la tv al servizio della didattica scolastica. Era necessaria, dunque, una nuova professionalità: quella di un «conduttore televisivo» che sapesse declinare la competenza didattica a partire dalla specificità del medium. Il punto di partenza era trovare le figure di insegnanti in grado di impostare la didattica dal punto di vista del mezzo televisivo e non semplicemente di mettere la tv al servizio della didattica scolastica: fu così che si arrivò ad Alberto Manzi

Fu così che si arrivò ad Alberto Manzi, che faceva il maestro elementare a Roma e collaborava dal 1956 a «La Radio per le scuole». Egli venne mandato dal suo direttore didattico a fare un provino un mese prima dell’avvio della trasmissione. Manzi racconta di essersi inventato sul momento la modalità su cui impostare la comunicazione didattica: chiese se, anziché «recitare» il testo di una lezione che gli avevano assegnato, potesse fare di testa sua; dalla regia gli risposero di sì. Aveva bisogno di fogli di carta grandi, glieli portarono e li fece appendere al muro; prese un carboncino e cominciò a disegnare… Le figure appena schizzate, man mano che prendevano forma, diventavano il pre-testo su cui Manzi imbastiva il testo della sua lezione. I segni tracciati dalla sua mano che si muoveva agile sui fogli «animavano» il contenuto della lezione e si fondevano con la sua voce pacata e rassicurante in una «narrazione didattica». «La televisione è fatta di immagini in movimento - nota Manzi - per cui, se io sto fermo 20 minuti a parlare, addormento tutti. La mia soluzione fu di disegnare: mi bastava schizzare qualcosa, meglio se incomprensibile all’inizio, per cui chi stava a guardare era incuriosito dal disegno che via via prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso».

Non ci è dato sapere quanti siano stati effettivamente gli adulti che hanno preso la licenza elementare attraverso i corsi di Non è mai troppo tardi: c’è chi ne minimizza la reale efficacia sotto questo aspetto e chi ne esalta i risultati (sarebbero più di un milione gli adulti che hanno certificato la loro alfabetizzazione…). La Rai non ha accompagnato il più importante esperimento pedagogico nella storia della televisione italiana con un lavoro rigoroso di monitoraggio e di ricerca tale da valutarne l’effettiva portata in termini quantitativi e qualitativi. È un fatto, però, che molti Pat, oltre quelli ufficialmente istituiti, nascevano spontaneamente, che molti adulti analfabeti o semianalfabeti seguivano individualmente il programma, che molti bambini trovavano suggestive le lezioni di quel maestro, così diverso dai maestri o dalle maestre che conoscevano a scuola, e lo seguivano affascinati dal quel modo di insegnare con i disegni e di parlare come se si rivolgesse solo a loro (oggi si direbbe che «bucava lo schermo»).

Lo straordinario successo di Non è mai troppo tardi fu dovuto al fatto di essere non solo un «corso di istruzione popolare per adulti analfabeti», come recitava la sua didascalia, ma un vero e proprio programma televisivo capace di intrattenere un pubblico che andava oltre il proprio «target» di riferimento. Alberto Manzi capovolgeva il modello tradizionale e stantio di Telescuola, egli cioè non era semplicemente un buon insegnante di scuola prestato alla televisione, ma dimostrava di saper fare televisione attraverso le proprie qualità didattiche e comunicative. Nelle sue «lezioni» televisive, a seconda dell’argomento trattato, Manzi utilizzava fotografie e filmati, invitava di tanto in tanto un ospite famoso, usava espedienti in grado di animare la didattica, come la lavagna luminosa su cui scrivere e disegnare.

Terminata l’esperienza di Non è mai troppo tardi – nove anni in cui ricoprì il ruolo di insegnante distaccato presso la Rai – Alberto Manzi tornò a fare il maestro elementare presso la scuola Fratelli Bandiera di Roma. La sua immagine e la sua fama rimarranno per sempre legate a quel programma: una sorta di «icona televisiva» consegnata alla storia della nostra tv pubblica, senza un prima e un dopo… È questo, d’altronde, l’effetto collaterale che spesso la tv genera intorno a un «personaggio»; basta tuttavia scavare nel ricco materiale dell’archivio donato dalla famiglia di Manzi, dopo la sua morte, all’Università di Bologna e conservato nel Centro Alberto Manzi (www.centroalbertomanzi.it), presso la Regione Emilia-Romagna, per rendersi conto che ci troviamo di fronte a una delle figure più originali e significative della recente cultura pedagogica italiana. Fu esattamente questa l’impressione che io ne ebbi quando lo incontrai per una lunga intervista nel giugno del 1997: stavo studiando il ruolo della televisione educativa in Italia e Alberto Manzi era una delle mie fonti primarie.

La vita e l’opera di Alberto Manzi si possono definire attraverso tre profili: quello di autore e conduttore di programmi radio e televisivi, quello di scrittore per ragazzi e quello di insegnante ed educatore; come fossero tre vite parallele nella stessa persona, affiancate una all’altra senza soluzione di continuità. La sua figura è l’esito della sinergia fra questi tre percorsi, differenti tra loro ma tutti orientati verso lo stesso obiettivo: l’educazione.

Il lavoro di Manzi in televisione si conclude nel 1992 con Impariamo insieme: 60 puntate di 15 minuti l’una per insegnare l’italiano agli extracomunitari; una sorta di «ritorno al futuro» per il maestro di Non è mai troppo tardi, chiamato a dare il suo contributo per una nuova alfabetizzazione. Fra questi due programmi, il profilo televisivo di Manzi si dipana in una serie di collaborazioni per la tv per ragazzi, che lo vedono autore di testi (Giocagiò; Il trenino; C’era una volta… domani) o autore e conduttore (Snip-Snap; È vero che?), e per il Dipartimento Scuola Educazione della Rai, dove realizza alcune serie di programmi (Impariamo a imparare; Fare e disfare; Educare a pensare) che rimangono fra le testimonianze più significative prodotte dalla televisione italiana nel campo della pedagogia visiva. Qui Manzi propone azioni e riflessioni didattiche con gruppi di bambini, nelle quali si evidenziano i tratti specifici del suo stile e del suo metodo. Egli assume il ruolo di attore e regista che manipola l’oggetto della didattica come una trama aperta su cui sviluppare un «gioco delle parti» fra insegnante e allievi, dove la conoscenza diventa animazione e avventura linguistica e cognitiva. Che si tratti di capire «la differenza fra assorbimento e assimilazione» oppure «perché gli uccelli volano» o di assegnare ai bambini un tema del tipo «Come mi lavo i denti» per verificare con una pantomima se il testo scritto descrive effettivamente le azioni da compiere, l’abilità di Manzi sta proprio nel mostrarci che l’artificio didattico funziona alla stessa stregua del gioco, in quanto riesce a coinvolgere attivamente i bambini in una interazione dove essi pongono il massimo impegno in una «finzione» di cui sono, insieme all’insegnante che la conduce, consapevoli e partecipi.

Grogh e Orzowei danno la cifra stilistica di Alberto Manzi scrittore: la letteratura non deve proteggere l’infanzia dai turbamenti, ma piuttosto provocarli sulla base di una intenzionalità formativa

Quando inizia Non è mai troppo tardi, Manzi è già un affermato scrittore per ragazzi: nel 1950 esce Grogh, storia di un castoro, e nel 1955 Orzowei, la sua opera letteraria più famosa, che divenne un film per la regia di Yves Allegret ed ebbe una versione televisiva a puntate nel 1977. Segnati da un finale tragico e salvifico insieme dove l’agnizione dell’eroe è l’atto estremo, Grogh e Orzowei danno la cifra stilistica di Alberto Manzi scrittore: la letteratura non deve proteggere l’infanzia dai turbamenti, ma piuttosto provocarli sulla base di una intenzionalità formativa che ha nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente e nel senso dell’avventura i suoi fondamentali dispositivi. Il mondo della natura e la vita che vi si svolge, sia essa animale o umana, per Alberto Manzi sono un ambiente duro, a tratti crudele, eppure un «mondo della vita» dove l’uomo può sia costruire la propria identità e la propria formazione autentica, sia esercitare il proprio potere distruttivo. Entrambi questi romanzi diventano dei successi internazionali e Orzowei, tradotto in oltre 30 lingue, è l’opera di letteratura per il’infanzia italiana più tradotta dopo Pinocchio. Alberto Manzi è scrittore dotato di una eccezionale versatilità, autore di oltre 120 titoli: cura edizioni di fiabe ed egli stesso è autore di fiabe e racconti per l’infanzia, pubblica libri di testo scolastici, opere a carattere didattico, di divulgazione culturale e scientifica per ragazzi. Domenico Volpi lo ha voluto fra i suoi collaboratori al Vittorioso, il settimanale per ragazzi che Volpi ha diretto dal 1948 al 1966, facendone uno dei laboratori più importanti in cui si è formata la scuola italiana del fumetto. Durante i suoi viaggi in Sudamerica, Manzi spediva gli articoli per la rubrica «Occhi sul mondo»: racconti di viaggio di un «inviato speciale» animato da una curiosità avventurosa, che lo spinge a conoscere mondi e umanità diverse, interrogandosi sulle loro condizioni e sulle contraddizioni della civiltà dell’uomo bianco di cui lui stesso si sentiva parte.

È il terzo profilo di Alberto Manzi, quello di insegnante elementare, a fare da «sfondo integratore» su cui gli altri due trovano identità e senso. Nato nel 1924, Alberto Manzi va collocato a pieno titolo tra le figure che hanno contribuito al rinnovamento della cultura pedagogica italiana dal secondo dopoguerra, insieme, tra gli altri, a Bruno Ciari, Danilo Dolci, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, don Lorenzo Milani, Gianni Rodari – tutti nati fra il 1920 e il 1925. La «vocazione» al mestiere di insegnante Manzi l’aveva maturata fin da giovane: aveva frequentato l’istituto nautico, ma contemporaneamente aveva conseguito l’abilitazione magistrale. Soprattutto dopo l’esperienza della guerra divenne chiara in lui l’intenzione di dedicarsi alla scuola; il primo impatto è traumatico e decisivo: nel 1946 e ’47 viene mandato a insegnare in una classe di 94 alunni che andavano dai 9 ai 17 anni e mezzo nel carcere minorile «Aristide Gabelli» di Roma: «È stata l’esperienza che mi ha costretto a progettare un modo diverso di fare scuola, perché fra questi ragazzi c’erano sia gli analfabeti, sia alcuni che avevano frequentato il primo e il secondo anno di liceo». Con loro realizza un giornalino, La Tradotta, e, racconta Manzi, di tutti questi ragazzi, una volta usciti dal carcere, solo due successivamente vi sono rientrati.

Alberto Manzi si laurea in Biologia e poi in Pedagogia con Luigi Volpicelli, che lo vuole come assistente all’Università di Roma; Manzi è animato da una forte tensione alla ricerca didattica, ma capisce che per questo genere di ricerca il vero laboratorio non è l’università, ma la scuola: per oltre trent’anni, fino alla pensione, farà quindi l’insegnante, sempre nella scuola elementare Fratelli Bandiera di Roma. Conosce direttamente e approfondisce il metodo scout, cercando di applicarne alcuni aspetti metodologici al lavoro scolastico; studia Piaget e Vygotskij quando ancora erano pressoché sconosciuti nella cultura magistrale italiana. La sua classe, all’ultimo piano della scuola, con una porta che dà sul terrazzo, è una vera e propria officina/laboratorio della didattica. Problem solving e attivismo, educazione alla cooperazione e alla responsabilità, interdisciplinarità e centralità dell’esperienza concreta sono i cardini su cui Manzi costruisce la sua didattica, sollecitando nei ragazzi quella che definisce come «tensione cognitiva», cioè il desiderio che spinge a conoscere la realtà, a porsi domande e a cercare risposte, e su cui l’insegnante co-costruisce con gli allievi il percorso di insegnamento e apprendimento. Consapevole che l’educazione scientifica è il punto più critico della didattica scolastica, Manzi la assume come asse portante del suo metodo di insegnamento, non solo nell’ambito delle discipline scientifiche in senso stretto, ma declinando il «metodo scientifico» nei vari campi del sapere, come la forma più rigorosa dell’Educare a pensare. Nel corso dell’anno scolastico Manzi organizza una settimana di «campo scuola» in ambiente naturale, convinto che i luoghi della didattica siano molteplici, irriducibili all’interno delle mura scolastiche; è nell’Outdoor education che si collocano gi autentici campi d’esperienza e ambienti di apprendimento. Scrive Manzi:

«Oggi i ragazzi vivono in scatola (casa, macchina, scuola, macchina, casa, tv), non hanno la possibilità di pensare situazioni nuove, prepararsi all’imprevisto. Eppure hanno bisogno di libertà, di rischio, di cominciare a vivere le piccole cose, ad avere sensazioni nuove, forti, traumatizzanti. E solo andando fuori, vivendo fuori, poter vivere l’odore della pioggia, la musica del vento, riscoprire l’uso dei suoni, il buio di notte, la luna, la scoperta del silenzio, il gusto della pioggia sul viso, l’alba, la notte… ora tutte queste cose le debbono avere. Hanno il diritto di averle, per crescere armoniosamente.»

La sua didattica è lenta, segue il ritmo necessario alla formazione dei concetti nei bambini, non all’accumulo di saperi nella loro mente. Egli non insegna storia, perché ritiene che a quell’età i bambini non possono aver chiari i concetti di spazio e di tempo su cui si basa scientificamente la dimensione storica e il suo sapere, ma in V elementare porta i suoi alunni a visitare il campo di concentramento di Dachau, come «unica lezione di storia». Quando, nel 1977, gli ordinamenti scolastici impongono le schede di valutazione, Alberto Manzi compie un atto di «obiezione di coscienza» rifiutandosi di compilarle per i suoi alunni, soprattutto per quei «casi difficili» che erano particolarmente numerosi nella sua classe. Dopo ripetuti richiami da parte del Consiglio di disciplina, a cui Manzi rispose puntualmente portando le proprie motivazioni di ordine psicopedagogico, egli reagì stampando le schede di ogni bambino con un timbro che riportava la dicitura «Fa quel che può, quel che non può non fa». Nel 1981, il provveditore agli studi di Roma lo condannò alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per due mesi.Manzi costruisce la sua didattica sollecitando nei ragazzi quella che definisce come "tensione cognitiva", cioè il desiderio che spinge a conoscere la realtà, a porsi domande e a cercare risposte

L’ironia è uno dei tratti emblematici di Alberto Manzi, le cui azioni di «disobbedienza» diventano lezioni e testimonianze del suo «essere maestro». Come quando racconta, durante l’esperienza di Non è mai troppo tardi, che il giorno in cui arrivò la notizia dell’uccisione di Kennedy, i dirigenti Rai gli dissero di non parlarne durante il programma, trattandosi di un argomento che poteva creare problemi… La reazione di Manzi fu: «…e io, obbediente, ne parlai subito la sera stessa».

Nel 1954 Manzi va per la prima volta in Sudamerica con una borsa di studio come biologo per studiare un tipo di formiche in Brasile. Ben presto si accorge della condizione di sfruttamento dei contadini che, analfabeti, sono privati dei diritti politici: non possono votare o iscriversi al sindacato, e chi insegna loro a leggere e scrivere viene spesso preso e picchiato. Manzi è colpito da questa realtà e comincia così, anno dopo anno, per circa vent’anni, a trascorrere parte delle sue vacanze in Sudamerica, avendo come punto di riferimento una comunità di Salesiani, tra Perù ed Ecuador, dove fa l’educatore, alfabetizzando gruppi di indios. Appartengono a queste esperienze i romanzi di ambientazione sudamericana: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979), E venne il sabato (2005, postumo); una trilogia in cui i temi esistenziali e sociali di quella umanità trovano la loro forma espressiva e comunicativa. Sono gli anni in cui Paulo Freire costruisce la sua «pedagogia degli oppressi» e si sviluppa la «teologia della liberazione». Racconta Alberto Manzi: «Poi cominciarono ad accusarci di essere guevaristi, oppure papisti o un qualunque accidente che finiva in “isti”, per cui iniziarono ad arrestare dei gruppetti e io non me la sentivo più di rischiare la vita di questi ragazzi. In Perù e Bolivia, dove la situazione politica si era fatta pesante, non era possibile tornare. Alcuni Stati non mi davano più il visto: non ero una persona gradita. Durante quei viaggi, per esempio, ho conosciuto i sacerdoti sudamericani che aderivano alla teologia della liberazione. Molte volte ne abbiamo discusso a Lima, a Quito: si voleva capire se la Chiesa doveva servire l’uomo o il potere».

[Questo profilo di Alberto Manzi è stato pubblicato sul numero 4/2012 della rivista «il Mulino»]