La scomparsa di Claudio Abbado ha reso manifesto un vuoto di cui non sembra facile definire le proporzioni. Così, tuttora, un'aura di imperscrutabilità continua a proteggere il musicista milanese, con quella medesima riservatezza che gli fu familiare in vita, maestro di understatement intento nel compimento esclusivo della musica, quasi che unicamente lei bastasse a parlare per lui. Ora che la musica tace, l'incontro con chi lo ha conosciuto tanto e da vicino rappresenta l'occasione per raccontare Abbado in una dimensione prossima al reale, integrando nella stessa figura il genio inarrivabile e un uomo di coerente semplicità nel quotidiano, accarezzato dalla candida spontaneità d'un ragazzo malgrado l'avanzare del tempo e della malattia.

Cesare Mazzonis incontrò Claudio Abbado oltre trentacinque anni fa. I due iniziarono a collaborare alla Scala nei primi anni Ottanta, quando l'uno ne era direttore artistico e l'altro direttore musicale. Torinese, classe 1936, Mazzonis è oggi direttore artistico dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino e dell'Accademia Filarmonica Romana. Tra i tanti incarichi di prestigio che ha ricoperto nel suo lungo corso sulle vie della musica, basti menzionare l'esordio alla Direzione Musica della Rai nel 1967, le direzioni artistiche all'Orchestra della Rai di Roma dieci anni più tardi, i dodici anni poi, dal 1980, al Teatro alla Scala e il susseguente decennio al Maggio Musicale Fiorentino. Dagli anni milanesi il suo dialogo personale con Abbado non si è mai interrotto, tanto che dal 2006 lo coadiuvava come consulente artistico dell'Orchestra Mozart istituita a Bologna due anni prima. Con Mazzonis, dunque, si potrebbe conversare su Abbado per giorni interi, e così la prima domanda sorge quasi casuale, nel caleidoscopio d'una vasta memoria.

Qual è la prima fotografia che ricorda in tanti anni di amicizia?

È un'immagine complessa. Che vede non soltanto l'artista etereo dell'ultimo periodo, provato dalla malattia e compreso in una ricerca estrema di suono e di purezza formale, indirizzata essenzialmente al repertorio sinfonico tedesco: in essa si scorge anche il grande interprete del teatro musicale italiano, che si divertiva con la musica. Ricordo ad esempio quando, in tournée in Giappone con Il Barbiere di Siviglia, giocava con Enzo Dara a lanciarsi il cappello su e giù dal podio durante le ultime recite. Molto loquace non lo era di natura, e certamente con la malattia era divenuto ancor più schivo. Ma prima di quegli ultimi anni che lo avevano debilitato fisicamente Claudio nuotava, giocava persino a calcio. E ciò che comunque non perse mai, era la piacevolezza di fare esperienze - e anche di scherzare! - con i giovani. Con loro si sentiva completamente a suo agio...si lasciava andare con la giocosità di un bambino contento.

Un artista severo, ma anche un uomo gaio dunque!

Quella sua speciale gaiezza mi emozionò quando tornò a dirigere a Firenze nel 2002, dopo essere stato colpito dal tumore e aver affrontato un'operazione che lo segnò dolorosamente. Era magro come un chiodo, e con una forza di volontà incredibile in quello stesso periodo si accingeva ad affrontare la direzione del Parsifal al Festival di Pasqua, a Salisburgo. Mangiava pochissimo, in camerino si portava un po' di banana e un pezzetto di cioccolata. Finito il concerto, ci trovammo con Zubin Metha dietro le quinte per aspettarlo...ed ecco riapparire tra gli applausi questo essere esile, quasi trasparente, raggiante come un bambino. Mi voltai verso Zubin, uomo tutt'altro che sentimentale...aveva le lacrime agli occhi.

Probabilmente si appassionò tanto al progetto delle orchestre venezuelane di José Antonio Abreu anche per questa capacità che ha la musica di salvare la vita...

Sicuramente l'esempio del Venezuela sapeva toccare la corda dell'umanità che per Claudio era imprescindibile all'esperienza musicale. Abbado ha sempre sostenuto il ruolo sociale della musica. E della cultura in generale. Malgrado tutto, malgrado il momento presente non facile per l'Italia, guardava sempre con fiducia al futuro, talvolta con sguardo utopistico. Dentro di sé nutriva la speranza che i suoi sogni si avverassero: progetti come la costruzione di un nuovo auditorium a Bologna, o come i novantamila alberi da piantare a Milano. Lui vedeva tutto questo già realizzato, grazie a una capacità visionaria straordinaria, che rappresentava uno stimolo di eccezionale vigore per la sua creatività. Durante la nostra collaborazione alla Scala, ad esempio, ideò dei cicli musicali a dir poco pionieristici per quegli anni: una rassegna interamente dedicata a Musorgskij, un'altra a Debussy, comprendendo anche titoli come La caduta della casa degli Usher o Rodrigue et Chimène. E poi, a Berlino e a Vienna, diede vita a festival in omaggio alla figura di Prometeo o di Faust, per aggregare musica, arti visive e letteratura. Tutte insieme. Ecco, lui si entusiasmava per questo potere legante e fortemente attrattivo della cultura.

Il suo processo creativo era metodico o estemporaneo?

Abbado aveva entrambe le qualità. Si svegliava ogni mattina con una nuova idea, in preda a una febbrile attività immaginativa, supportata però da grande concretezza. Claudio era animato da visione e volontà. Alla Scala lavorava come solo una persona serissima poteva fare, e con la stessa tenacia con cui dava seguito ai suoi ideali umanistici e sociali, studiava tutto lo scibile musicale. Ma talvolta aveva bisogno di isolarsi. Così si recava ad Alghero: la sua casa in Sardegna rappresentava un prezioso pensatoio personale. Più di recente, durante l'inverno si rifugiava ai Caraibi.

Quali argomenti lo appassionavano oltre la musica?

Aveva tanti interessi. Amava la fotografia, la letteratura, riceveva impressionanti quantità di libri, soffriva d'insonnia e diceva di approfittarne per dedicarsi alle letture. Aveva molta ammirazione per Elias Canetti.

Abbado era davvero di poche parole così come appariva?

Non era mai troppo diretto, parlava per litoti, ma riusciva a essere impeccabile nella sua autorevolezza senza essere autoritario. L'educazione, la forma, erano insegnamenti che aveva ereditato bene da suo padre. Così alzava la voce pochissime volte, risultando estremamente esigente ma con garbo. Soprattutto con i musicisti.

Secondo lei, quali sono i tratti musicali che rendevano immediatamente riconoscibile il suono di Abbado?

L'estrema chiarezza con cui svelava la partitura attraverso l'atto del concertare. Penso ad esempio al cambio di colori dei Berliner Philharmoniker, nel passaggio di testimone con Karajan. Se questi impresse una sonorità estremamente sensuale ed edonistica all'orchestra, Abbado sapeva rivelare un quadro perfettamente leggibile, espresso con cristallina lucidità. Il suo gesto ispirava un percorso di chiarezza verso l'essenza della musica, al netto di ogni artificio accessorio o eccessivo.

È stato spesso assimilato ai massimi musicisti della tradizione europea. In cosa erano riconoscibili invece i suoi tratti italiani?

Abbado era certamente un italiano molto atipico, ma tuttavia lo era profondamente, come Italo Calvino. Per la leggerezza del gesto, per la limpidezza del pensiero. Amava l'Italia, sognava dei cambiamenti radicali. Ricordo quando rifletteva su come si potesse fare arrivare l'acqua al Meridione...sperava sempre che il nostro Paese diventasse un po' più serio.

Quali amici gli furono particolarmente cari?

Ebbe molti amici speciali, non solo nella musica. Con Roberto Benigni e sua moglie Nicoletta lo erano per la pelle, condivisero anche molti bei momenti ad Alghero e Roberto, che conosceva bene i gusti di Claudio, gli regalò alcune splendide piante. Tra gli amici più speciali conosciuti negli ultimi anni c'era anche Roberto Saviano: ricordo che lo scrittore, protetto dalla sua scorta, venne a seguire più volte le prove a Roma, all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e al San Carlo di Napoli.

Quali sono le più importanti eredità che ci ha lasciato?

Due aspetti principalmente: la serietà con cui affrontare lo studio, l'approfondimento continuo di ogni partitura, fino al più apparentemente minimo dettaglio, e il desiderio di portare la musica ai giovani, con la fondazione di nuove orchestre sul modello della Mozart a Bologna.

Come nacque il progetto dell'Orchestra Mozart?

Dall'idea di poter realizzare la musica così come la pensava. Con i ragazzi gli piaceva lavorare senza regole fisse, i tempi delle prove erano decisi insieme, in base alle esigenze richieste dalla preparazione di ogni singolo programma. E a Bologna si sentiva bene. Gli piaceva la città a misura d'uomo, che poteva osservare dalla sua casa affacciata su una splendida vista del centro storico, a Piazza Santo Stefano. Vicino alla Basilica dove è stata allestita la camera ardente e i funerali, in forma strettamente familiare. Anche il momento del saluto si è distinto per l'assoluta sobrietà abbadiana: Claudio se n'è andato con austera intimità, accompagnato dalla musica suonata dai suoi amici, circondato da quattro bellissimi mazzi di girasoli. Nient'altro. Nessun gesto divistico, nessun atteggiamento fuori proporzione. Nel rispetto di un uomo che parlava poco, non teneva discorsi e raramente rilasciava interviste. Un uomo che ci ha lasciato un messaggio solo di musica.