Orbán allontana l'Ungheria dall'Europa. Settimane convulse in Ungheria, dove all’ombra della crisi economica europea va in scena un altro atto della deriva autoritaria del governo di Viktor Orbán.

La maggioranza conservatrice in Parlamento ha difatti varato pochi giorni fa una controversa riforma costituzionale che ha innescato aspre critiche dell’opposizione nazionale e creato sconcerto diffuso in Europa. Le modifiche votate dal partito del Fidesz prevedono un forte ridimensionamento delle prerogative della Corte costituzionale, ma anche misure limitative delle libertà individuali e dei diritti umani di particolari categorie, tra le quali i senza fissa dimora e addirittura i giovani laureati, costretti a lavorare in patria per dieci anni una volta ottenuto il loro titolo. Quanto basta per bollare le nuove norme volute dal primo ministro come antidemocratiche e pericolose per lo stato di diritto.

Come se non bastasse, “Viktator” - così è stato rinominato dagli avversari il premier ungherese - ha recentemente conferito un premio speciale a tre intellettuali notoriamente razzisti e antisemiti, un gesto che rappresenta una strizzata d’occhio al partito xenofobo di estrema destra dello Jobbik, nonché il suggello di una escalation che sta via via allontanando il Paese magiaro dagli standard democratici continentali. Da quando è salito per la seconda volta al potere nel maggio 2010, forte di una maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, Orbán è riuscito a modellare il Paese in senso fortemente nazionalista, anticomunista e antieuropeo. Prima delle modifiche appena varate, la Costituzione ungherese era infatti già stata emendata in senso illiberale, con limitazioni nell’ambito dell’informazione, della giustizia e dell’istruzione entrate in vigore a gennaio 2012.

La situazione desta non poche preoccupazioni a Bruxelles. Già all’epoca delle precedenti modifiche costituzionali in senso nazionalista, la Commissione europea aveva avviato tre diverse procedure di infrazione nei confronti dell’Ungheria sulla base dell’articolo 7 dei Trattati. Questo prevede fino alla sospensione del diritto di voto del Consiglio di uno Stato membro che minacci di violare i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, insieme alle libertà fondamentali che caratterizzano l’appartenenza di un paese all’Unione. La deriva dell’Ungheria è infatti tale da sollevare seri dubbi sulla compatibilità del suo stato di diritto con quelli che sono i presupposti europei.

Le proteste provenienti dagli ambienti comunitari, ancora troppo timide, non sono state sufficienti a fermare Orbán. Se il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha alzato la voce contro le recenti novità costituzionali introdotte in Ungheria e lo stesso Europarlamento ne discuterà nella sessione plenaria di aprile, durante l’ultimo Consiglio europeo i capi di Stato e di governo dei Ventisette non sembrano aver preso in seria considerazione il dossier, assorbiti dai noti grattacapi economici e finanziari. La necessità di intervenire con fermezza sulle vicende magiare da parte dell’Unione deve in effetti tener conto di fragilissimi equilibri politici. Da una parte le istituzioni comunitarie dovrebbero mettere in campo tutti i mezzi a loro disposizione per richiamare il governo di Orbán a un serio ripensamento delle sue politiche – come accadde con l’Austria di Haider nel 2000 –, così da riportare il Paese nell’alveo di una piena democrazia; dall’altra tali misure potrebbero subire accuse di ingerenza nella piena sovranità di un governo legittimamente eletto, contribuendo ad alimentare i toni nazionalisti, col rischio di vedere Budapest abbandonare definitivamente la nave europea.

Il dilemma che attanaglia i piani alti europei non è di poco conto. Tuttavia, la difesa delle prerogative democratiche di uno Stato membro è veramente il minimo che si possa richiedere oggi all’Europa, per il suo bene e per quello dei suoi cittadini. In caso contrario, assistere alla morte di una democrazia nel cuore del vecchio continente sarebbe una picconata tremenda al senso più profondo del processo di integrazione, e per la già frastornata Europa un colpo dal quale difficilmente potrebbe riprendersi.