Elezioni portoghesi. Il bipartitismo e il disincanto. «Il Portogallo è un’oasi, qui la politica non è roba del volgo, per questo c’è tanta armonia fra di noi, la calma che vedete per le strade è la calma che c’è negli spiriti». La frase che José Saramago fa dire ad un importante personaggio di un suo celebre romanzo, racchiude magistralmente quasi un secolo di vita politica portoghese. E ben si addice anche alle elezioni politiche del 27 settembre scorso.

La bassa partecipazione elettorale (60,6%, la percentuale più bassa dall’avvento della democrazia nel 1974), oltre a ribadire il disincanto politico portoghese, ha probabilmente giovato all’incumbent, al primo ministro uscente. Il governo socialista guidato da José Socrates è stato confermato, ma non ha raggiunto la maggioranza assoluta in seggi visto che il Ps raccoglie mezzo milione di voti in meno del 2005 e di conseguenza solo 96 seggi rispetto ai 120 (maggioranza assoluta); i socialdemocratici raggiungono sostanzialmente la medesima percentuale e numero di voti del 2005, ma il risultato “negativo” del Ps consente loro di accedere alla distribuzione di un numero maggiore di seggi, guadagnandone 6 in più (78). Il partito di destra (assai moderata!) Cds/Pp ottiene il risultato migliore (21 seggi) dal 1983, dopo essere stato definito “partito taxi” per il numero di deputati vinti, in grado di riempire a malapena una vettura “gialla”. Il partito di estrema sinistra, Bloco de esquerda, raddoppia i seggi (16) grazie al 10% dei voti, ponendosi quale quarta forza elettorale, davanti ai comunisti di cui mette in discussione la leadership sul movimento antagonista e antiliberista. Il Pcp – il partito comunista più ortodosso d’Europa -, alleato dei Verdi, ha incrementato la rappresentanza parlamentare di un seggio (15).
Dal 1987 il Portogallo ha conosciuto governi monocolore – di maggioranza, in un caso di minoranza, e solo tra il 2002-05 una coalizione (minima vincente). Alla guida dell’esecutivo Socrates dovrà essere attento alle proposte avanzate dagli scranni della sinistra per conquistarne il sostegno, ovvero l’astensione su singole politiche. Del resto è plausibile ipotizzare che l’erosione del voto socialista sia ascrivibile in misura significativa all’astensione ovvero alla competizione di Pcp e Be, mentre la sfida socialdemocratica è stata velleitaria. I portoghesi avrebbero deciso di non decidere, confermando per inerzia un governo “não mal, não bom”, che molte passioni ed entusiasmi accese nel 2005 – dopo la disastrosa esperienza Barroso – ma che non è riuscito ad affrontare i problemi strutturali (la disoccupazione è vicina al 10%).
Alla luce dei risultati, ai nostrani improvvidi e un po’ improvvisati commentatori non è parso vero poter insinuare nel sistema politico portoghese elementi italiani da prima repubblica (ma forse anche futuribili) circa alleanze post elettorali e negoziazioni estenuanti in parlamento. Ma il sistema partitico di Lisbona si regge su una consolidata dinamica bipolare e (quasi) bipartitica da fare invidia al “modello Westminster”. La legge elettorale proporzionale favorisce i partiti a “vocazione maggioritaria”, e, come dimostra il Be, consente la rappresentanza di formazioni minori, concedendogli un significativo potere di “ricatto e coalizione”. Sono però Ps e Psd i partiti con legittime aspirazioni a governare da soli. Il rischio potenziale, stante la volontà di Socrates a non governare in coalizione (almeno non formalmente), è il governo del queso, come accadde tra 1999-2002 allorché l’esecutivo di minoranza guidato da Guterres fu costretto a negoziare continuamente il sostegno di un deputato del Cds legato a interessi (agricoli) particolaristici.
La vera e amara comparazione, qualora non si resistesse alla tentazione di introdurre minimi raffronti con l’Italia, risiede nella commistione tra politica e finanza rapace (c’è n’è un'altra?), ma soprattutto nelle relazioni tra esponenti di governo e informazione. Per gli italiani valga – non a fini consolatori – la vicenda (non sessuale) che ha coinvolto il primo ministro circa un presunto tentativo di censura governativa di una delle due Tv private – TVI (una volta legata alla Chiesa e ora in mano al gruppo spagnolo Prisa, ex alleato del Psoe). Secondo l’opposizione la sospensione del Telejornal da 6ª, condotto da un’ex deputata del Cds-Pp, sarebbe ascrivibile alla pressione del governo - via Psoe – sulla Prisa per evitare la trasmissione di un report su supposte tangenti edilizie ricevute da Socrates nel periodo di governo Guterres. Ma, evidentemente, non è bastato a influenzare l’esito del voto.
La frase riportata all’inizio di questa lettera e che il dottor Sampaio, protagonista de L’anno della morte di Riccardo Reis, rivolge ad alcuni ospiti spagnoli rassicurandoli sulla tranquillità della vita politica lusitana è in perfetta liason con una delle tematiche dibattute in campagna elettorale. Socialdemocratici e socialisti si sono affrontati sul ruolo e l’influenza dell’amico/rivale spagnolo. La candidata del centrodestra ha espresso riserve contro la presunta ingerenza (leggi indigesta amicizia Socrates-Zapatero) di Madrid, e perciò opponendosi alla linea ferroviaria veloce che dovrebbe unire le capitali iberiche, dando un po’ di ossigeno ad economia e occupazione.
Rassicurare i portoghesi circa una paventata invasione spagnola (concreta nel settore bancario) ripescando un nazionalismo d’antan, non è bastato a far vincere il centrodestra. Il cambiamento di governo non c’è stato e Manuela Ferreira Leite, da queste parti ribattezzata “lady di ferro” (il confronto con Thatcher è francamente irriverente), non è riuscita a diventare la seconda donna (dopo Lourdes Pintasilgo) premier. Il conservatorismo “classico” ha tra l’altro scarsa presa su un Paese (relativamente) giovane che ha voglia di uscire dal corner geo-economico unendosi all’Europa senza ripiombare nell’autocrazia. Tanto che nei ristoranti popolari quanto in quelli raffinati di Chado, i portoghesi che oggi optano per il riso e per l’eccellente bacalhau, bagnato da inebriante vino tinto alentejano, a differenza del periodo salazarista, lo fanno liberamente e non (solo) per sopperire alle emaciate casse governative.
La società risente tuttavia ancora della struttura corporativa di derivazione salazarista, accentuata dalla crisi finanziaria che ha avuto incisive ripercussioni sulla tenuta sociale, sugli strumenti del welfare e la ridistribuzione della ricchezza. La relativa carenza (parzialmente ridotta nell’ultimo lustro) di infrastrutture fisiche e “immateriali” per sostenere l’economia e lo sviluppo sia delle regioni interne sia di quelle costiere, non è bastata a scardinare il blocco sociale. La mobilità sociale è assai scarsa, la sperequazione economica è eclatante e la classe dirigente resta sostanzialmente oligarchica e poco competitiva (basti pensare al caso esemplare, ma non singolare, dei fratelli Portas, esponenti della borghesia lisboeta legata all’aristocrazia agricola, uno presidente del Cds/Pp; l’altro esponente di spicco del Be).
Il lembo di terra più ad ovest d’Europa esprime però una classe dirigente assai dignitosa, e in alcuni casi di qualità e influente: Barroso confermato presidente della Commissione europea; Socrates è abbastanza stimato nelle cancellerie anche per il ruolo di mediazione con componenti significative del continente africano; Guterres è a capo dell'Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. E Cavaco Silva - già apprezzato primo ministro - molto probabilmente verrà rieletto presidente nel 2010.
Le elezioni politiche del 2009 consegnano dunque un Portogallo in cui domina la calma per le strade, e nelle urne, in opposizione al periodo in cui il poder caiu na rua tra il 1974-76 nel “biennio rosso” post rivoluzionario allorché il potere “era in strada”. Da allora, dopo tempi di «fertilissime messi di gramigna, con allusioni esplicite alla propaganda comunista, anarchica e sindacalista che dappertutto si va spargendo fra le classi operaie, fra i soldati e i marinai […]» (è ancora Saramago), il paese appare sonnacchioso e malinconico. Salazar (come Caetano) non c’è più, ma ai portoghesi, come affermerebbe Alberto Caeiro – un eteronimo di Fernando Pessoa – ancora “poco, o meglio non abbastanza, importa” (della politica). Quasi che - direbbe Antonio Tabucchi - «sentisse[ro] una grande nostalgia, di cosa non saprebbe[ro] dirlo, ma [è] una grande nostalgia di una vita passata e di una vita futura, sostiene Pereira».