Voci da piazza Tahrir. Il cessate il fuoco seguito all’operazione “Colonna di nuvole” – lanciata lo scorso 14 novembre da Israele sulla striscia di Gaza – ha riproposto prepotentemente all'attenzione del mondo il ruolo cardine dell’Egitto nell'area. Sebbene le manifestazioni organizzate al Cairo in favore di Gaza abbiano registrato una scarsa partecipazione, parlando con le persone è facile cogliere un diffuso risentimento nei riguardi dell’establishment israeliano e delle cancellerie occidentali. Questa ritrovata convergenza di opinioni è stata ancora una volta il frutto dei risvolti politici, religiosi e umani che sottendono il dramma israelo-palestinese. Si è trattato tuttavia di un fenomeno effimero che, a differenza di quanto sarebbe accaduto in passato, si è dissolto nel giro di una manciata di giorni. Tolta la patina in superficie è riemerso un Paese ripiegato su se stesso, che oscilla tra un ritrovato orgoglio e una crescente instabilità.

Anche in Egitto, come già accaduto nel corso della storia in numerosi altri contesti, la fase subito successiva alla destituzione dell’ex presidente Hosni Mubarak è coincisa con un frenetico tentativo di eliminare il maggior numero possibile di tracce che potessero rimandare al regime appena crollato. Si è trattato di una damnatio memoriae che si è “abbattuta” in primis sulla toponomastica delle città-simbolo del Paese.

Seppur avvertito con estremo entusiasmo da una parte consistente della popolazione locale, il processo di “demubarakizzazione” sembra tuttavia appartenere già a un lontano passato. Al suo posto si è fatta largo una crescente preoccupazione, che ha toccato il suo picco nelle fasi seguite al 22 novembre, giorno in cui il presidente Mohamed Morsi – accusato ora da più parti di essere egli stesso un feloul, una “rimanenza” del vecchio regime – ha pronunciato la nota “dichiarazione costituzionale” attraverso la quale si è attribuito una pletora di poteri.

Sebbene le rimostranze espresse per l’occasione da Morsi non fossero in alcun modo campate in aria – l’ostruzionismo dell’opposizione, in alcuni casi pretestuoso, avrebbe potuto protrarsi sine die, creando le condizioni per una pericolosa impasse politica e sociale – è altresì evidente che i mezzi da lui adottati ricordano troppo da vicino l’era Mubarak per poter passare inosservati.

La bozza della Costituzione appena votata dall’Assemblea costitutente – 243 articoli sono stati esaminati e votati dalla Fratellanza e dai partiti salafiti in appena sedici ore – stabilisce tra l’altro “i principi della legge islamica” come fonte principale del diritto: una disposizione che nel  linguaggio e nel contenuto ricalca la Costituzione in vigore ai tempi dell’ex dittatore. Un altro dei 243 articoli che la compongono prevede che i dotti islamici di Al-Azhar debbano essere consultati su ogni questione riguardante la sharia; un provvedimento che, nel caso passasse il referendum confermativo atteso tra due settimane, svuoterebbe la magistratura dei suoi poteri. “La crisi in corso – spiega Mouin Rabbani, un noto analista politico – non sarà risolta fino a quanto il presidente Morsi e i Fratelli musulmani non forniranno chiari segnali della loro volontà di costruire un Egitto pluralista in cui il consenso non si impone, bensì si ottiene. In caso contrario sia Morsi sia la Fratellanza e l’intero Egitto pagheranno un caro prezzo”.

L’avvertimento dell’imminente pericolo al quale si è accennato accomuna tanto le cancellerie occidentali quanto le componenti “secolari” della popolazione locale. “Al-Wafd”, giornale che fa capo all’omonimo partito, ha ribattezzato tale fenomeno l’“Ikhwanizzazione” (da Ikhwan, “fratelli”; per estensione i Fratelli musulmani) dell’Egitto, mentre Mohamed El-Baradei, ex direttore dell’Aiea, oggi esponente di Hizb el-Dostour (Partito della Costituzione), ha definito Morsi “un nuovo faraone”. In altre parole, un numero crescente di cittadini, compresi diversi autorevoli esponenti politici e noti giornalisti, è sempre più convinto che l’Egitto di Morsi stia prendendo le sembianze di un nuovo tipo di regime, questa volta di stampo islamico: “il percorso che ci divide da un Egitto realmente democratico – spiega Magdy Akhur, un commerciante residente nel quartiere di Mohandseen, al momento accampato in una delle numerose tende bianche che in questi giorni punteggiano piazza Tahrir – passa attraverso la nostra abilità a contrastare il fanatismo religioso e il connesso tentativo di accentramento del potere attuato da Morsi. Solo una Costituzione fondata sul principio dei «pesi e contrappesi» e l’organizzazione di elezioni libere e democratiche possono fornirci una simile opportunità”.

Esiste poi un secondo timore, più problematico dal punto di vista della Fratellanza musulmana in quanto attinente alle fasce più basse della popolazione, e dunque a una base importante del suo elettorato. Il riferimento è al crescente malcontento legato a questioni pratiche – l’inquinamento dell’acqua, la mancanza di cibo, la disoccupazione, la carenza di sussidi energetici – che non pochi immaginavano di veder migliorate già nei primi mesi della presidenza Morsi e che invece, soprattutto a causa degli effetti economici della rivoluzione del 2011, sono in alcuni casi peggiorate. Il rischio maggiore è che l’attuale delicata fase di transizione possa sfuggire di mano a una classe dirigente priva di esperienza e che ciò possa essere propedeutico all’avvio di una seconda fase rivoluzionaria.

In questo clima di incertezza la stesura della nuova Costituzione si è via via trasformata in uno specchio della triplice frattura che sta avvelenando l’attuale fase politica. La frattura tra “secolaristi” e “islamisti” è di certo la più evidente. Ma è forse la faglia che, tanto in Egitto quanto nella striscia di Gaza e nel resto della regione, divide i “salafiti massimalisti” – o “letteralisti”, secondo la definizione di Tariq Ramadan – dall’Islam “riformista” a rappresentare il principale fattore di instabilità. Raymond Aaron era solito sostenere che la politica non fosse “mai uno scontro tra il bene e il male”, ma che la vera scelta fosse tra “ciò che è preferibile e ciò che è detestabile”. L’Egitto dei nostri giorni conferma una volta di più la validità di tale assunto.

Il vero volto dell’Egitto è dunque ancora lontano dall’essere svelato. Non mancano i segnali che lasciano presagire l’ascesa di un sistema lontano dagli standard democratici auspicati. Allo stato attuale, tuttavia, la caduta di Morsi sarebbe estremamente dannosa per tutte le parti in causa. A cominciare dai “ragazzi del 25 gennaio”, l’anima della rivoluzione. Essi, con ogni probabilità, si troverebbero a fare i conti con una nuova dittatura sostenuta da un esercito che, sebbene moderatamente soddisfatto della libertà di manovra garantitagli dall’attuale presidenza, è per molti versi desideroso di tornare al centro della scena.

Anche e soprattutto per tali ragioni è oggi più che mai necessario sostenere, in primis economicamente, la svolta in atto. Nel 2007, in piena era Mubarak, l’economia del Paese venne definita dal Fondo monetario internazionale “an emerging success story” (Fmi 2007, p. 32). Il giudizio fu forse troppo lusinghiero; circa il 44% degli egiziani viveva con meno di due dollari al giorno e la sperequazione esistente nelle condizioni di vita della maggioranza della popolazione era in aumento. Ciò non toglie che il prezzo delle lacerazioni seguite alla rivoluzione del 2011 abbia avuto nel medio termine un costo esorbitante, un costo che potrebbe determinare l’avvitamento del Paese in una nefasta spirale. Basti pensare che nel dicembre del 2010 la Banca centrale egiziana poteva contare su riserve pari a 35 miliardi di dollari; un dato che, stando alle cifre rese pubbliche appena quattro mesi fa, risulta oggi più che dimezzato.