I referendum abrogativi hanno sempre avuto un impatto politico fortissimo sul sistema politico italiano. Una ragione di questo risiede nella natura stessa dello strumento: si vota dando un «sì» o un «no», esprimendo una decisione netta, senza mediazioni. Nei referendum – e non a caso il generale De Gaulle li usò in abbondanza quando tornò al potere nella V Repubblica – le intermediazioni offerte dai partiti saltano, e l’elettore è di fronte a una scelta binaria e ultimativa. I referendum, dunque, non solo vanno “oltre” le indicazioni dei partiti, ma a volte, quando questi non sanno interpretare le sensibilità dell’elettorato, li travolgono. Pensiamo alle consultazione tenutisi nei primi vent’anni di vita dell’istituto referendario, dal 1974 al 1993: sono stati tutti di grande portata sistemica, dal primo, quello sul divorzio, agli ultimi di quella fase alta, quelli sul finanziamento dei partiti e il sistema elettorale (del Senato). Anzi, la spallata finale al sistema partitico della cosiddetta “Prima Repubblica” venne proprio dai referendum del 1993, preceduta, quasi annunciata, da quello, apparentemente minore, per l’introduzione della preferenza unica nel 1991. Molte sono le analogie tra quella stagione di inizio anni Novanta e i referendum che si sono appena tenuti. Anche allora vi erano leader di una stagione politica antica e ormai declinante che irridevano ai referendum e invitavano ad “andare al mare”, come suggerì all’epoca Bettino Craxi. Anche allora si tentò di minimizzarne il risultato “depoliticizzando” il significato. Anche allora il referendum venne lanciato come un guanto di sfida a una classe di governo logora e distante.Il voto del 12 e del 13 giugno, nonostante il sotterfugio del ministro degli Interni Roberto Maroni che ha scelto di non accorpare referendum e amministrative per far leva sulla stanchezza degli elettori, “travolge” i due leader di governo e i rispettivi partiti.

Pdl e Lega, privi di una linea chiara e oscillanti tra la libertà di voto e l’astensione, sono andati in ordine sparso, sia a livello di elettorato sia, soprattutto, di classe dirigente: uno spettacolo da rompete le righe. I due leader, invece, sembrano avvinti nella caduta: entrambi fino all’ultimo minuto hanno difeso la loro posizione astensionista, dimostrando quanto il loro rapporto con l’opinione pubblica si sia via via sfilacciato.

Ed è questo il punto cruciale. Umberto Bossi non può chiamarsi fuori dalla seconda, sonora sberla ricevuta dagli elettori. Ha condiviso fino in fondo l’impostazione berlusconiana. Quel movimento di opinione pubblica indirizzatosi verso la Lega negli ultimi anni ha invertito la marcia: ha visto le carte e ne ha tratto le conseguenze. I lunghi coltelli spunteranno più a Pontida che nelle residenze del Cavaliere. Il governo reggerà fin quando i due partiti rimarranno coesi come lo sono stati fin qui. Ma se questi risultati danno il via alla conflittualità interna a Lega e PdL, insieme al governo crollerà tutta l’impalcatura del centro-destra. Così, ancora una volta, i referendum, da molti spesso considerati uno strumento logoro e ormai inutilizzabile, mostreranno tutta la loro forza intrinseca, capace di produrre un impatto sistemico decisivo.